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Piccola indagine su come l’Arte possa influenzare il nostro benessere

 Negli ultimi 10 anni le neuroscienze e modelli di medicina integrata come la Pisconeuroendocrinoimmunologia (PNEI) hanno posto l’attenzione sulla persona e non sulla malattia, minando le basi della medicina organicistica e della dicotomia cartesiana.

Le emozioni costituiscano il primo movens per qualsiasi azione, sono alla base del nostro benessere, regolano lo stato di salute e di malattia. Il sistema nervoso comunica con tutto il resto del corpo attraverso molecole neuroendocrine, ormoni, fibre nervose e interagisce strettamente con il sistema immunitario. A sua volta il corpo risponde e invia continuamente al cervello informazioni non coscienti sul suo stato.

Questo network complesso può essere alterato da fattori esterni o interni, l’ambiente che ci circonda influenza il nostro stato emotivo a tal punto, che è stato dimostrato che l’isolamento sociale favorisce l’insorgere di patologie, soprattutto cardiovascolari, e ne esacerba durata e intensità.

Un sistema così complesso come l’essere umano, può essere studiato “riducendolo a molecole”al fine di capirne i meccanismi di base, ma non può essere curato se non nel suo insieme.

Il paradigma della medicina occidentale organicista, oramai sta mutando, sempre di più in Europa e nel mondo vengono introdotte nei luoghi di cura varie chances terapeutiche che esulano dall’uso dei farmaci e aiutano la persona a regolare le proprie emozioni e il proprio benessere.

L’arte può influire sullo stato di salute, come modulatore emotivo, tuttavia il percorso da fare non risulta ancora chiaro, perché è molto difficile stabilire e strutturare un percorso artistico durante la degenza e documentarne in maniera scientifica e analitica i benefici sulla salute.

Facendo un’analisi attenta della letteratura, risulta impossibile delineare in maniera strutturale e scientifica gli interventi artistici presenti attualmente nelle realtà ospedaliere italiana, men che meno a livello internazionale. La prima difficoltà che si incontra è quella di definire l’arte, ovvero  se alle tradizionali forme di arte come pittura, canto, ballo, teatro, letteratura bisogna aggiungere anche le forme artistiche più moderne, come installazioni, cinema, fotografia.

 Se proviamo a darne una definizione utilizzando Wikipedia: L’arte, nel suo significato più ampio, comprende ogni attività umana, svolta singolarmente o collettivamente, che porta a forme di creatività e di espressione estetica, poggiando su accorgimenti tecnici, abilità innate o acquisite e norme comportamentali derivanti dallo studio e dall’esperienza. Pertanto l’arte è un linguaggio, ossia la capacità di trasmettere emozioni e messaggi. Tuttavia non esiste un unico linguaggio artistico e neppure un unico codice inequivocabile di interpretazione.

Nel suo significato più sublime l’arte è l’espressione estetica dell’interiorità e dell’animo umano. Rispecchia le opinioni, i sentimenti e i pensieri dell’artista nell’ambito sociale, morale, culturale, etico o religioso del suo periodo storico. Alcuni filosofi e studiosi di semantica, invece, sostengono che esista un linguaggio oggettivo che, a prescindere dalle epoche e dagli stili, dovrebbe essere codificato per poter essere compreso da tutti, tuttavia gli sforzi per dimostrare questa affermazione sono stati finora infruttuosi.

L’Arte impiega quindi un linguaggio variegato, multiforme, duttile, versatile, risulta impossibile stabilirne i confini, definirla, e nonostante sappiamo con certezza che le emozioni svolgano un ruolo principale nell’omeostasi corporea e quindi influenzano positivamente o negativamente il nostro benessere, ci  chiediamo se è possibile “misurarne” oggettivamente  gli effetti,  che cosa si deve misurare, e in che modo si può stabilire la guarigione di un essere umano o definirne  il benessere.

Uno studio interessante, ma di per sé ricco delle suddette problematiche, è stato condotto dal professor Enzo Grossi, docente di “Qualità della vita e promozione della salute” all’Università di Bologna, che ha fatto condurre dei pazienti dell’ospedale di Cuneo a 63 metri di altezza per vedere da vicino una delle meraviglie del mondo: la cupola ellittica più grande che sia mai stata realizzata, quella del santuario di Vicoforte.

Prima di salire sulla cupola, ai pazienti è stato prelevato del cortisolo salivare ed è stato somministrato un questionario, dove si indagava se il paziente era interessato all’arte, la quantità di libri letti nell’anno, le condizioni di salute e la religione professata.

I pazienti hanno percorso in fila indiana circa 240 gradini di scale a chiocciola e 17 pioli, con imbracatura, per raggiungere il cupolino. Uno di loro racconta: “La vista da quassù ripaga il piccolo sforzo: la cupola affrescata è uno splendore, illuminata dalla luce del sole che filtra dalle grandi finestre nel basamento. Ma due ore passano in un attimo e bisogna tornare con i piedi per terra”. Un altro paziente sostiene: “non avevo dubbi sulla buona riuscita dell’esperimento: lassù, mentre sfioravo un affresco settecentesco di seimila metri quadrati che raffigura la glorificazione di Maria – opera di Giuseppe Bibiena, Mattia Bortoloni e Felicino Biella – mi sono sentito molto vicino all’idea di paradiso che appartiene all’immaginario collettivo. E così la mia saliva ha decretato che sì: la bellezza, l’arte, la cultura mettono in moto il meccanismo del benessere”.

I risultati del test hanno evidenziato che in media il cortisolo salivare durante la visita è sceso del 60% e oltre il 90% dei partecipanti ha dimostrato di sentirsi molto meglio al termine dell’esperienza

Il prof Grossi spiega che l’arte come terapia non è una novità, ma il punto è che mai fino ad ora abbiamo avuto la “misura” dei benefici della cultura sulla salute. Tuttavia la misurazione del cortisolo rimane un unico parametro ed è lecito chiedersi come variano altri tipi di mediatori infiammatori.

Risulta difficile, quindi applicare un rigoroso metodo scientifico a questa ricerca perché le variabili sono innumerevoli e estremamente legate alla soggettività del malato e alla sua esperienza di vita.

Continuando nella ricerca risulta interessante anche Il gruppo di ricerca di Theo Hartogh all’Università di Vechta in Germania, che ha costruito un vero e proprio approccio alla gerontologia culturale, integrando le persone anziane in attività di musica e canto e dimostrando un miglioramento dell’attività cognitiva. Analogamente, un neuroscienziato di primo piano come Erik Scherder dell’Università di Amsterdam ha offerto una panoramica degli effetti che la pratica culturale già in giovane età produce dal punto di vista della prevenzione del rischio di demenza in età avanzata.

 Ai contributi scientifici si affiancano poi esperienze pratiche di estremo interesse, spesso portate avanti anche da piccole organizzazioni, come nel caso di Creative Aging International, il cui direttore Dominic Campbell ha offerto un’ impressionante panoramica delle possibilità offerte dalla progettazione di attività culturali interamente pensate, e co-sviluppate, proprio con persone anziane affette da problemi di decadimento cognitivo e autosufficienza: più che una terapia, le arti diventano qui un vero e proprio modo di plasmare l’ambiente sociale in cui invecchiamo e di dargli soprattutto un connotato umano non soltanto dal punto di vista della qualità dell’assistenza, ma dell’esperienza del significato dell’invecchiare e della capacità di sentirsi ancora parte attiva della comunità malgrado le crescenti limitazioni a cui si è inevitabilmente sottoposti.

In Lombardia a dicembre 2017 è stata inaugurata la mostra “Curarsi ad arte: La luce” proprio il 13 dicembre, giorno che celebra santa Lucia, considerata protettrice della vista. Lanciato nel 2016 grazie alla collaborazione tra Ospedale San Giuseppe Di Milano e l’Accademia di Brera, il progetto nasce come originale esperimento di “museo diffuso” all’interno di luoghi deputati alla cura e, dopo il successo della prima edizione, è tornato nel 2018 con un focus specifico sulla luce. Esattamente nei corridoi del Reparto Materno-Infantile, dove nuove vite vengono “alla luce”, sono infatti esposte le opere realizzate dagli studenti di Brera.

Interessante risulta il metodo di Rebecca Russo, psicologa, psicoterapeuta e collezionista d’arte contemporanea, che ha creato Videoinsight®, organizzazione privata no-profit di Torino. Il metodo è basato sull’interazione di pazienti con selezionate opere di arte contemporanea ad alto impatto psico-terapeutico, uno sguardo luminoso posato sull’arte come elemento che può portare beneficio sul piano mentale, intellettuale, psicologico, affettivo e fisico. La collezione, che si divide in aree tematiche (Auto-trascendenza, Autostima, Narcisismo, Amore-Appartenenza, Sicurezza personale, Impulso, Cambiamento, Salute-benessere, Sofferenza psicologica) include pittura, scultura, installazione, performance documentate e un numero molto consistente di video.

Uno studio condotto su cento pazienti operati al legamento crociato anteriore, presso le Le Molinette di Torino ha dimostrato che i pazienti che avevano guardato immagini d’arte ad alto impatto videoinsight®, guarivano significativamente prima degli altri e presentavano dei test sul benessere post operatorio migliori rispetto al gruppo placebo.(‘The Videoinsight® Method: improving early results following total knee arthroplasty’R. Russo, M.G. Benedetti, E. Mariani, T. Roberti di Sarsina, S. Zaffagnini . Official Clinical Journal of Esska,Knee Surgery Sports Traumatology Arthroscopy N. 9 | 2017)

Altre iniziative sono le stanze di “medicina narrativa” dell’ospedale San Camillo di Venezia, dove un gruppo di psicoterapeuti ha organizzato laboratori di narrazione dove attraverso un percorso di lavoro individuale e di gruppo si cerca di migliorare la consapevolezza e il senso critico rispetto ai processi ed al riconoscimento dei modelli latenti sottesi al concreto lavoro nella pratica quotidiana delle cure. La conduzione del corso è basata sul metodo clinico che si avvale di setting di gruppo con attività di narrazione autobiografica e utilizzo di sollecitazioni cinematografiche ed espressive per la rivisitazione dei vissuti, delle rappresentazioni, delle dinamiche affettive e dei dispositivi organizzativi nel lavoro di cura. In questo caso però ad essere “curati” sono i dipendenti sanitari, partendo dal concetto che chi cura deve a sua volta essere sostenuto.

Di sicuro la disciplina che fino ad ora ha esplorato, più di qualsiasi altra disciplina medica, l’uso dell’arte in terapia è la psichiatria. Non soltanto il Marchese de Sade mise in scena alla fine del Settecento un inaugurale spettacolo teatrale fra i malati di mente all’ospedale di Charenton, ma lo stesso Lombroso all’ospedale psichiatrico di Collegno seguì le attività artistiche dei pazienti così come molti psicoanalisti (sulla scorta delle ricerche di Freud e di Jung) hanno esplorato il labile confine fra creatività e salute.

Fino alle attuali neuroscienze che, dal mio punto di vista, hanno un approccio un pò troppo riduzionista e scarsamente fenomenologico, malgrado la grandissima cultura e sensibilità personale dei vari Semir Zeki e Eric Kandell.

I paesi anglosassoni, soprattutto gli Stati Uniti, sono di gran lungo i più avanti nella ricerca applicata anche nelle massime istituzioni accademiche. Vari Paesi in Europa e in Nord America hanno intrapreso politiche per un’ampia diffusione  dell’arte a sostegno della promozione della salute della collettività (Finlandia con il progetto Taiku e di recente il Canada). Il Sud America è attivissimo in questo senso. 

E naturalmente c’é tutto un antico filone di ricerca in antropologia culturale e antropologia medica sull’uso di musica, performance teatrale nelle comunità dette “tradizionali” (ricerche del prof. Pentikanen sullo sciamanesimo artico, Piero Coppo, Roberto Beneduce sulle pratiche di cura in Africa) e l’enorme filone dell’Oriente che ha un patrimonio storico e tradizionale infinito di incroci fra arte e cura.

La rassegna che ho compilato è assai misera sia per numero che per  fonti : di sicuro sarebbe tempo che un’équipe di ricercatori facesse una ricognizione a vasto raggio sulle attività che chiamiamo in modo approssimativo “arte” e che sono strumenti perpetui della cura, fra cui anche l’uso di strumenti musicali inusitati e inediti che hanno una storia etnica e medica degna di nota.

Nonostante la difficile catalogazione e degli interventi artistici in campo medico risulta evidente che il comparto della cultura è ancora poco permeabile a creatività e innovazione, dovrebbe finalmente scrollarsi di dosso tutte le ritualità ottocentesche che ancora lo segnano in gran parte e immaginare forme nuove di fruizione culturale che abbiano almeno minimamente a che fare con gli stimoli, le opportunità, gli stili di vita di una persona di oggi.

Pier Luigi Sacco, professore di Economia della cultura presso l’Università IULM di Milano sostiene che “Oggi esistono studi che mostrano l’effetto della cultura sulla qualità di vita e sul benessere psicologico, ma anche la sua efficacia nei più vari ambiti clinici”. Si va diffondendo l’idea di un possibile paradigma di “welfare culturale” che, con interventi opportunamente declinati, è in grado di produrre un miglioramento delle condizioni delle persone assistite, riducendo allo stesso tempo i costi di ospedalizzazione, degenza e medicalizzazione, e liberando risorse che possono essere utilizzate, tra gli altri scopi, per coprire questi stessi interventi, che quindi di fatto si autofinanzierebbero. Per arrivare a un simile risultato, occorrono nuove esperienze pilota, non più come accaduto finora su scala ridotta, ma con numeri significativamente più ampi.

Arianna Dell’Anna

Illustrazione: Silvia Palamara

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