Le dannate della terra 2: riflessioni condivise

Sulla base degli stimoli posti dall’articolo di Lavinia dello scorso 8 marzo
è nata una discussione intersezionale che, senza pretesa di esaustività,
prova ad affrontare la più dura e archetipica delle domande: che fare?

Ba: Uno dei problemi delle donne migranti che arrivano in Italia è che sono dipendenti dagli uomini. Non hanno idea di un progetto di autorealizzazione individuale e, piuttosto, tentano di trovare un uomo che si occupi di loro. La maggioranza di queste donne, non ha motivazioni allo studio e all’emancipazione.
E questo è conseguenza dell’educazione che ricevono: sono abituate sin da bambine a stare in casa con la mamma e apprendono tutti i lavori di cura e accudimento della famiglia e del loro uomo. Quasi come se fossero “programmate” solo per la vita domestica e la maternità.
È questo il modo in cui vengono cresciute le donne in alcuni territori africani: anche se i tempi stanno cambiando e ci sono aperture culturali, purtuttavia molti uomini non accettano che le loro mogli lavorino e, ancora, molti padri preferiscono che le figlie si sposino piuttosto che proseguano con gli studi. Per questi genitori le figlie devono essere “formate e pronte” a fare un bel matrimonio. Perché per un uomo la cosa più importante è che sua figlia abbia un matrimonio, cioè un marito e dei figli.
Le donne crescono in questa “sottomissione mentale”; sono gli uomini che portano tutto a casa e loro sono sottoposte a questo potere, devono accordarsi alla volontà dei loro uomini, sono sottoposte a questa dominanza mentale e fisica.

Lavinia: Lavorando in una comunità di accoglienza con donne migranti ho osservato che la maggioranza di loro aveva come obiettivo la maternità. Trovare un fidanzato ricco che si occupasse di fare dei regali (da ostentare) e che potesse mantenere dei figli, era un obiettivo perseguito con grande motivazione. Come? Attraverso la seduzione, attraverso l’uso del corpo e l’uso dei social per sponsorizzarsi.
Era difficile co-progettare con loro un percorso di studi: erano completamente disabituate a contare sulle proprie capacità cognitive. A volte sembrava fossero “solo corpo”, capelli, trucco, borse griffate e abiti sfavillanti.
Il rischio è sempre quello di agire pratiche educative che riproducano un modello “colonizzante”; tuttavia, trovarsi in questo tipo di dinamica è tutt’altro che semplice e lineare.
Si parla di un sistema culturale profondamente patriarcale e subordinante.

Carlo: Anche a me è capitato di osservare quell’atteggiamento, e da una posizione alquanto scomoda, per lo più. Lavorando come mediatore e responsabile di CAS, io – maschio, bianco e operante in un ruolo di potere – ai loro occhi rappresentavo esattamente l’archetipo per cui, come dice Ba, erano state programmate fin dall’infanzia. Per me quelle ragazze erano double trouble, e cioè un problema doppio: alla necessità di supplire ai loro bisogni ordinari, come il pocket money, le schede telefoniche e gli appuntamenti medico-legali, si aggiungeva quella di resistere a modalità di seduzione onnipresenti e pervasive, che mi restituivano un’immagine di me cardine di quel sistema di potere patriarcale che io personalmente ho sempre cercato di combattere – convinto come sono che sia per certi versi scomodissimo anche per noi uomini.
Ostinatamente convinto com’ero a non usare nessun tipo di paternalismo nei confronti degli ospiti del centro – per me i migranti non sono mai povere vittime di un destino sfortunato, ma persone che orgogliosamente combattono per una vita migliore – con quel tipo di ragazze la cosa conflagrava ulteriormente in una tensione nevrotica infinita: l’uso costante del corpo di cui parla Lavinia era usato come un simulacro di seduzione che non rimandava a me come individuo (in realtà non mi sentivo neanche visto, come persona) ma a una mia funzione e a una costellazione di valori dove il potere e la gerarchia contano più di ogni altra cosa. Esattamente quello che non volevo io, insomma.

Ba: è opportuno considerare che questo tipo di dinamica è stato presente anche in Europa e in Italia. Sono molte le storie sovrapponibili, soprattutto fino agli anni ’70. La questione femminile e razziale appartiene a tutte e tutti ed è un problema che non può restare senza soluzione.

Lavinia: Non abbiamo formule magiche ma possiamo formarci e informare in ogni modo possibile. Partire proprio dall’idea che l’intersezionalità, come approccio, ci aiuta a mettere a fuoco la situazione problematica complessa, che non è trattabile in maniera separata: la subordinazione di classe sociale, la questione di genere e la questione razziale non possono essere disgiunte. È un processo lungo che riguarda scelte educative profonde, un cambiamento di paradigma radicale, una consapevolezza della necessaria sfida culturale.

Carlo: Le questioni razziali, di genere e di classe appartengono a tutte e tutti. E questo mi sembra un ottimo punto di partenza per iniziare a smettere di dividere gli schieramenti sulla base di razza, genere e classe: tanto più che quei tre termini si rivelano inadeguati a descrivere la realtà odierna. È un po’ difficile definire in termini razziali i figli della società multietnica, i 2G e il meticciato culturale, così come le categorie maschile e femminile si rivelano sempre più inadeguate (nella loro assoluta polarità) ad accogliere diverse identità che in quella polarità non si riconoscono, e tra i nuovi poveri si nascondono figure come le partite IVA che nella vecchia rappresentazione delle classi sociali non troverebbero neanche posto.
Forse l’unica divisione possibile è proprio tra chi vuole cambiare le cose e chi difende lo status quo e il sistema attuale: e la differenza come al solito la fa il come.

Testo: Mahamadou Ba, Lavinia Bianchi, Carlo Miccio
Foto: Lavinia Bianchi

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