Viaggio a Moussodougou, il villaggio delle donne

di Brigida Angeloni – II parte

Finalmente vedo in lontananza il trattore, parcheggiato vicino un edificio in parte crollato, Mamadou mi dice che è l’essiccatore di mango, qualche mese prima è esplosa una bombola di gas mentre c’era gente a lavorare, fortunatamente non è morto nessuno, ma poco ci è mancato. Ora che i
forni sono inutilizzabili, il villaggio ha perso una importante attività redditizia, l’arrivo del trattore forse potrà aumentare la produzione degli ortaggi e magari si compenseranno un po’ le perdite.

Presa dall’entusiasmo, salgo sul trattore e mi faccio un po’ di foto, così per fermare il momento. Arriva l’agronomo e mi tocca scendere dal trattore, un ragazzo giovane che si è laureato in agraria all’università di Bobo. Parliamo di come verrà impiegato il trattore, mi dice che gli anziani sono contrariati perché pensano che rovinerà la terra, ma che i coltivatori giovani come Mamadou la considerano una grande opportunità. Lui avrà il compito si spiegare ai contadini come e quando utilizzarlo, il trattorista rimarrà lì qualche giorno per insegnare a un paio di ragazzi a guidarlo.

Ci salutiamo e io e Mamadou torniamo a casa, lui entra a riposarsi, per me c’è il pollo in un tegame sotto la veranda. Mi lavo le mani e comincio a mangiare. Mi sento un po’ sadica a mangiare mentre loro digiunano, cerco di fare presto e mi faccio una pennichella nella mia stanzetta.

Mi sveglio ristorata da un’oretta di sonno al calduccio, esco e decido di avventurarmi sul viale principale del villaggio. Non ho mai visto un viale alberato più bello di quello, la terra rossa ombreggiata da alberi altissimi e con chiome maestose che si incontrano creando un arco naturale sopra la testa di chi cammina. Ai lati le casette circolari di terra rossa e le donne prese dalle loro attività: una sta grattugiando la radice di manioca su una pietra ruvida, ha i bicipiti degni di un culturista, mi parla nella sua lingua e alla fine capisco che vuole farmi provare. Non posso tirarmi indietro, ma invece della radice mi grattugio le dita e una nuvola di ragazzini attacca a ridere a crepapelle. Non mi resta che ringraziare e tirare dritto…

Cammino e mi inebrio in questo viale che mi sembra solo per me e per qualche asinello parcheggiato all’ombra degli alberi. Ogni tanto una capretta saltella poco più in là, tutti salutano e sorridono e io comincio a pensare che forse mi piacerebbe restare, che forse potrei semplicemente
decidere di non tornare, facendo perdere le mie tracce. Sento i pensieri leggeri, mi dimentico chi sono, cosa faccio e da dove vengo. I piedi sono attratti verso la terra, sento il sangue che circola nelle vene, passa dal cuore e arriva alla testa. Cammino senza fatica, cammino senza esserne cosciente, una baracchetta vende la miscela dei motorini nelle bottiglie dei liquori francesi, una signora fa da concessionario del dado Maggi su un tavolino di legno, un ragazzino poco più in là ha messo le cartine delle ricariche telefoniche su un cartone bloccandole con degli elastici.

Quando sono praticamente certa che non lascerò mai quel posto, arriva Mamadou col motorino, mi dice che mi porta a casa, mi mostra qualche nuvola in cielo. Io faccio la mia solita resistenza e dico che torno a piedi che tanto non pioverà. Lui mi dice che no, che al massimo tra 40 minuti piove, salgo sul motorino e guardo l’orologio perché se poi non piove mi arrabbio. Arriviamo a casa, capisco che mi sarà proposto di lavarmi, ma questa volta li prendo in contropiede e mi faccio trovare pronta con il necessario in mano. La seconda moglie Ba apprezza che ho imparato le regole della casa e mi accompagna alla latrina con il secchio di acqua calda che si rifiuta di farmi portare e dice di fare presto perché ancora mezz’ora e piove.

Mi lavo e faccio di tutto per far passare mezz’ora perché oramai è una sfida tra me e loro, ma stare nuda come un verme in mezzo a quattro pareti di paglia intrecciata è abbastanza noioso, mi arrendo, mi asciugo e mi vesto. Mi metto sotto la veranda mentre Ba cucina e i ragazzini vanno a raccattare galline e pulcini e li fanno entrare nel loro ricovero, Mamadou mi spiega che se i pulcini prendono la pioggia si ammalano e muoiono. Vedo qualche goccia cadere sulla terra, guardo l’orologio, sono passati 40 minuti da quando Mamadou mi è venuto a prendere, capisco che qua sfide non ne posso lanciare, alzo gli occhi e vedo i ragazzini entrare come frecce in casa e riuscirne subito dopo con ogni forma di contenitore possibile. Piazzano tutto in mezzo al cortile, scoperchiano il bidone dove riversano l’acqua del pozzo e tornano al coperto. Mi rendo conto di quanto sia preziosa l’acqua in un posto come questo, avere un pozzo non basta perché la vena si può esaurire e scavarne un altro solo con la pala deve essere un incubo.

Mangiamo al buio il riso, sento i bambini discutere nella loro lingua, scruto nell’oscurità e mi accorgo che si stanno litigando le ossa del pollo lasciate da me a pranzo. Vorrei sotterrarmi, sparire per sempre, vorrei dire qualcosa, ma il silenzio è l’unico suono che riesco a produrre.
Mi ritiro nella mia stanzetta, mi stendo e mi addormento quasi subito. Mi sveglio di soprassalto, mi sembra che stiano bussando alla porta. No, è la pioggia sul tetto di metallo. Diluvia, sembra che l’ondulato debba venire giù ma non ho paura. Sento che non può succedermi nulla, ho la precisa sensazione di essere al sicuro, lì nulla di male mi può accadere. La pioggia è dirompente, mi metto ad ascoltarla come se fosse musica. Ma a un certo punto sento bussare veramente, apro la porta e insieme a una tonnellata d’acqua entra Ba avvolta in un telo di cotone, mi dice di prendere lo zaino e le mie cose e che devo entrare in casa con loro, che hanno paura che lì possa entrare l’acqua perché il pavimento è più basso. La seguo sotto il telo e entro in casa. C’è una stanza comune dove dormono stesi sulle stuoie i figli più grandi, poi tre stanze, in quella al centro Mamadou, nelle laterali le mogli con i rispettivi figli più piccoli. Mi stendo dove trovo spazio, mi copro e cerco di dormire, ma avrei bisogno del bagno e fuori diluvia, so che non potrò addormentarmi.

A proposito di servizi igienici, questa è una parentesi necessaria. Che sia a Bobo o al villaggio, la latrina è in cortile, a volte pertinenza esclusiva di una sola numerosa famiglia come a casa di Mamadou, a volte a disposizione di tutti gli abitanti di una “cour”. Non è dotata di un rubinetto d’acqua né, di frequente, di porte. In realtà ci son diversi modelli di latrina, ma in ogni caso usarle per un occidentale è un trauma, non tanto perché impari che la permanenza in quel genere di toilette si riduce allo stretto necessario per mancanza di comfort, ma perché quando ci devi andare, ti devi portare la brocca dell’acqua e tutti si accorgono che ci stai andando. E già per noi questa è una grave violazione della privacy. Inoltre quanto sei quasi lì, devi verificare che non sia occupata, ma non avendo una porta su cui bussare devi produrre un suono onomatopeico che si sostanzia in “co co co” e aspettare risposta. Ma soprattutto, quando sei finalmente lì, tu, quattro pareti di terra rossa o di paglia intrecciata e un foro circolare in collegamento diretto con la fossa biologica, ti rendi conto che su questa terra siamo proprio tutti uguali e se anche sei arrivato con un po’ di spocchia te la fai passare in una frazione di secondo.
Ecco, per un occidentale, tutte queste manovre sono contro natura. Per un africano invece equivalgono a una grattatina sulla testa. Non se ne frega nulla nessuno se vai alla latrina, quante volte ci vai, perché ci vai e per quanto tempo ci resti. Beh, quando acquisisci questa consapevolezza, la vita ti cambia, anche quando torni a casa in Europa.

Ma torniamo alla notte della grande pioggia e al mio bisogno impellente della latrina. Guardo l’ora sul telefonino, non sono neanche le due, non posso resistere fino alla mattina dopo. Mi metto a pensare a come fare a entrare e uscire senza alluvionarmi, prendo il kway, l’asciugamano e le
infradito di plastica, apro lo porta con circospezione e esco nella veranda. Mi tolgo tutti i vestiti e mi metto il kway e le ciabatte, guardo fuori, la latrina è troppo lontana, piove a dirotto e c’è fango ovunque, se cerco di arrivare lì rischio di scivolare e farmi male. Mi allontano 5 metri dalla veranda e risolvo lì il problema, in quei pochi secondi mi ricordo di quando da piccola mi scappava mentre ero in giardino a giocare e per non salire in casa facevo pipì tra i filari della vigna, sapevo che se mi avesse visto mamma sarebbero stati guai, ma lo facevo lo stesso. Torno sotto la veranda, mi tolgo il kway, mi asciugo un po’ e mi rivesto. Mentre riprendo fiato prima di rientrare penso che se mi avesse visto mia madre…mi faccio una risata silenziosa e torno in casa, mi stendo e piombo nel sonno.

La mattina dopo splende di nuovo il sole, c’è molto fango ma si sta asciugando, mentre bevo il Nescafé, Mamadou mi dice che le piogge si stanno intensificando, che nel pomeriggio mi riporta a Orodara a prendere il bus, perché se i sentieri e i campi si allagano troppo non sono più in grado di riportarmi indietro col motorino. Io ci rimango un po’ male, quasi quasi rimanere intrappolata là mi sarebbe piaciuto, ma gli dico che va bene e se vuole partiamo subito. Lui mi risponde che aspettiamo qualche ora che il sole prosciughi un po’ l’acqua e che nel frattempo lui deve andare alla cerimonia funebre di un vecchio del villaggio che è morto qualche giorno fa. Mentre mi chiedo dove avranno tenuto il defunto tutti questi giorni, ma poi subito dopo decido di non pensarci, sento un rumore di tamburi in lontananza. Mamadou mi spiega che il vecchio seguiva la religione tradizionale, che lo hanno vestito di pelle di montone e lo stanno portando in giro per le sue terre sopra un lettino di paglia intrecciata. Mi viene una botta di follia e timidamente gli chiedo se posso andare con lui. Lui ha un guizzo nello sguardo perché ho capito che di fondo apprezza la mia capacità di adattamento e la mia temerarietà e a me sembra che stia per dire sì, poi si ferma e mi dice che non è bene che vada, perché non sono stata “iniziata” e la cosa può essere pericolosa. A questo punto mi arrendo, vado a preparare lo zaino e mi vado a fare un altro giro per il villaggio.

Mentre aspetto il ritorno di Mamadou, Ba mi porta un vassoio col riso e una carpa fritta, mi spazzolo via tutto con dedizione perché lo ha cucinato lei e voglio gratificarla.
Quando arriva il padrone di casa, si lava, si cambia e dopo aver salutato tutti, montiamo sul motorino cinese e andiamo verso Orodora. Quando salgo sul pullman ho un senso di vuoto che mi attanaglia, mi sembra di non sapere più chi sono, di non poter più tornare indietro. So che oramai è tutto cambiato dentro di me, rimescolato dallo stupore di sentimenti ed emozioni mai provati, dalla dolcezza del lasciarsi andare, dall’accettarsi imperfetti e fragili. Sì, potrò lasciare il villaggio e poi il Burkina Faso, magari non tornare più, ma sarà tutto diverso. Sono io che sono diversa, ancora non so in cosa riconoscermi d’ora in poi, ho perso tutti i punti di riferimento che avevo portato con me per oltre quarant’anni, ho perso quelle che pensavo fossero le mie priorità, il mio concetto di giusto e di bellezza. Sono in balia della nuova me che si affaccia alla vita, o forse di quella bambina che si arrampicava sugli alberi e sognava di essere Sandokan e di fare cose eroiche in posti sperduti in mezzo alla giungla, fantasticava di andare lontano, chissà dove, di camminare a piedi nudi senza farsi male. Appoggio la testa al finestrino e guardo la strada del ritorno, mi addormento fino a che una signora non mi stringe il braccio e mi dice che siamo arrivati a Bobo.

Quando la notte non riesco a dormire penso al viale del villaggio, a quella vita essenziale, ma assolutamente piena, alla sensazione di volare con i piedi piantati a terra e mi chiedo se Mamadou e la sua famiglia potranno mai comprendere come hanno cambiato la mia vita. E’ per questo che ovunque io sia, qualunque cosa io stia facendo, ho Moussodougou nel cuore.

Brigida Angeloni si occupa da diversi anni di educazione degli adulti e di ricerca nell’ambito pedagogico. Negli ultimi anni sta svolgendo studi e ricerche sulla valorizzazione delle competenze dei migranti e sui saperi comunitari delle comunità della Diaspora. Dal 2012 si reca regolarmente in Burkina Faso, dove sostiene micro progetti di sviluppo destinati all’occupazione femminile e all’accesso all’educazione delle bambine e dei bambini a rischio di forte esclusione sociale.

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