Scritto sui muri delle nostre patriarcali coscienze

Una quindicina di anni fa un detenuto venticinquenne del carcere di Catania, affiliato a un clan mafioso con il grado di picciotto, ebbe la malaugurata idea di spedire alcune poesie d’amore a un concorso letterario. Come conseguenza, il poeta detenuto fu violentato da otto mafiosi carcerati nello stesso istituto, in base al principio secondo cui se scrivi poesie sei un omosessuale, condizione inconciliabile con lo status di affiliato e in grado quindi di disonorare l’intero clan d’appartenenza. Sebbene a seguito dell’episodio il picciotto avesse necessitato di cure chirurgiche nell’infermeria dell’istituto penitenziario, del tragico accaduto si venne a conoscenza solo due anni dopo, grazie alle dichiarazioni del suo avvocato difensore che rese pubbliche le violenze e la motivazione delle stesse. Sei mesi dopo le esternazioni dell’avvocato, il ragazzo si suicidò, impiccandosi nello stesso carcere della Bicocca dove aveva subito le violenze.

Per qualche impalpabile connessione sinaptica questa storia mi è riaffiorata alla mente guardando l’acclamata serie di ZeroCalcare – Strappare lungo i bordi – e in particolare ammirando una scena dominata da una gigantesca scritta murale: Amare le femmine è da froci. La traduzione – necessaria per chi non conosce la contestualizzazione e soprattutto la prosodia borgatara dell’autore – è pressappoco questa: un vero uomo può (anzi deve) concedersi tutte le conquiste che vuole, ma se si piega ai sentimenti smette di essere vero uomo.

Certo, c’è una distanza enorme tra la sgangherata vignetta che ritrae il graffito sul muro di Rebibbia e la drammatica vicenda del poeta detenuto, ma il filo sottile che lega le due cose è senza ombra di dubbio lo stesso: il tabù, in entrambi i casi, è l’espressione dei sentimenti, giudicati qualcosa di non sufficientemente macho. Un tabù che è parte del tributo che la cultura patriarcale esige dagli stessi maschi eterosessuali.

Sebbene non ci possa essere nessun dubbio sul fatto che siano le donne e le sessualità non allineate a pagare il prezzo più caro del dominio patriarcale, è altrettanto vero che quella cultura è un problema che investe la società nella sua interezza, e quindi anche quella parte – statisticamente minoritaria ma di fatto detentrice del potere reale – composta da maschi eterosessuali. Quella parte cioè il cui cambiamento è più che mai necessario per riuscire a smantellare quel costrutto millenario che è il patriarcato. E, all’interno di questa prospettiva, la questione dei sentimenti declinati al maschile diventa centrale.
Non che il tabù riguardi l’intera gamma delle emozioni: ce ne sono alcune, al contrario, che vengono classificate come intrinsecamente maschili. La rabbia, ad esempio, è considerata prerogativa maschile, utile a operare nelle categorie del dominio e del potere.

È la rabbia, sentimento maschile per eccellenza e che accomuna alla sfera degli dei – Sodoma e Gomorra docet – l’arma principale su cui si basa il maschilismo tossico: un’arma così abbagliante da venire proposta come status symbol nei passaggi mediatici di personaggi che quel maschilismo tossico incarnano e sbandierano ossessivamente, utilizzandolo con metodo e cognizione di causa in ogni dibattito e talk show a cui vengono invitati.

E infatti non meraviglia che sia proprio la rabbia – o se preferite, l’incapacità a gestirla – il termine più citato (come spiegazione, causa e giustificazione) nelle cronache della stragrande maggioranza dei casi di femminicidio che si registrano in questo paese – e anche in molti altri. Come è stato più volte fatto notare, si tratta proprio di un emozione che colpisce gli uomini ma uccide le donne.

Lavorare sulle emozioni, piuttosto che negarle, è un momento centrale per avviare percorsi mirati e diretti in primo luogo agli uomini responsabili di maltrattamenti domestici. Da tempo l’associazione MaschilePlurale ha realizzato una rete di punti di ascolto diffusa sull’intero territorio nazionale (che puoi consultare qui) e in seguito altre realtà (da CambiaMenti a Trento al Gruppo Abele a Torino e al CAM – Centro ascolto uomini maltrattanti a Roma) sono partite a lavorare nella stessa direzione.

Ma insieme a questo lavoro, che possiamo definire specialistico, c’è una grande azione sulla percezione sociale di cosa sia maschile e femminile che non può riguardare esclusivamente le acuzie criminali da cronache televisive: è come al solito nella vita e nella pratica quotidiana che c’è bisogno di mutamento, iniziando prima di tutto a non dividere sentimenti ed emozioni (come neanche i lavori) in maschili e femminili, ma iniziando anzi a concedere a ciascuno di noi la possibilità di essere molte più cose di quante pensavamo ci fosse permesso essere.

PS: la pubblicazione del fotogramma con il murale di Zerocalcare mi è costata un ban di tre giorni da Facebook, con la motivazione di incitamento all’odio. Non hanno colto l’ironia, insomma. Ennesima conferma dei limiti di un pensiero binario – come l’algoritmo che lo incarna – nell’interpretare un mondo reale fatto di gradienti e sfumature, come quello che invece viviamo fuori dai social.

Testo: Carlo Miccio
Foto: Marcello Scopelliti
Immagine: Zerocalcare

Lascia un commento