Questo è il mio sangue: analizzatelo

“Hey amico, sei venuto a fotografare degrado?”

Sono in un campo rom e sto fotografando un pannello elettrico assemblato senza logica, circondato da container in amianto e roulotte sfondate. La domanda arriva da un ragazzo sulla trentina, la sigaretta penzoloni tra le labbra e un lampo ironico nello sguardo. Accanto a lui sua moglie tiene in braccio una bambina nata da appena una settimana. Il giovane padre di famiglia è evidentemente abituato alla vista di giornalisti in vena di scoop, che si soffermano a fotografare cose e non persone, e sa che quel genere di articoli vanno a finire tutti sotto la categoria degrado.

Degrado, una parola onnipresente nel dibattito moderno e che è arrivata a significare qualunque cosa – dal traffico di esseri umani allo sfalcio delle aiuole urbane – senza gradienti d’intensità. La polarizzazione linguistica tra degrado e decoro diventa l’orizzonte culturale dentro cui ogni questione politica viene misurata e catalogata. Nel caso di questo campo rom – Al Karama, alle porte di Latina – il degrado per alcuni è vedere bambini nascere e crescere in baracche di amianto a dividersi il mangiare con i topi, per altri è la  stessa presenza della struttura in un territorio che la percepisce come oasi felice per criminali di ogni specie.

In entrambi i casi, chi viene a qui a documentare le proprie tesi non fotografa le cose e le persone vere, ma il degrado. Lo sguardo di chi osserva, apparentemente, scivola addosso agli esseri umani e si sofferma sulle baracche cadenti, sulle fogne a cielo aperto, sui cani che si aggirano nel fango. Le storie personali, le uniche capaci di ricostruire la realtà al di la dello stereotipo e del luogo comune, rimangono sempre invisibili, sommerse da questa lente alla continua ricerca di scandali e indignazione.

E le persone che quei luoghi li abitano, sanno di essere invisibili, al massimo ridotti a didascalica conferma di una realtà già classificata alla voce degrado. Si sentono osservati senza essere visti.

Nell’aprile del 1984, a Milano, si tenne un convegno sulle culture giovanili, interrotto dall’arrivo di un numeroso gruppo di punk dei collettivi anarchici che, dopo aver occupato la sala, iniziò a sfasciare metodicamente la parte della mostra dedicata proprio a loro, cioè alla cultura punk. Alcuni dei contestatori iniziarono a tagliuzzarsi il corpo con lamette da barba e macchiare di sangue un volantino che iniziava con queste parole: Questo è il mio sangue: analizzatelo! Forse scoprirete quali sono i miei veri bisogni. Nel volantino, affermavano di non accettare di essere considerati “oggetto di studi” invece che “soggetti sociali”: rifiutavano così di essere inscatolati, ciascuno di loro con le loro personalissime storie individuali, dentro una categoria generalizzante che finiva per reificarli, cioè privarli di ogni qualifica umana per svalutarli al rango di cose, di oggetti. E quindi, in qualche maniera, di merci. Buone per indagini di costume, servizi giornalistici, convegni sociologici e inchieste shock televisive.

In qualche maniera, a 36 anni di distanza, l’ironia beffarda negli occhi del giovane padre nel campo rom mi ha fatto pensare a quell’episodio, e al bisogno (diritto?) che tutti abbiamo di essere visti come persone, individualità integre che vanno al di là di qualsiasi classificazione: di questo sono certo che parlasse il suo sorriso ironico, e di questo parlavano i punk di Bologna nel 1984 mentre facevano a pezzi gli stand pieni di dischi, magliette e fanzine che loro stessi si erano autoprodotti.

A ricordarci che anche l’umanità, e non solo la bellezza, risiede sempre nello sguardo di chi osserva.

Carlo Miccio

Foto: Marcello Scopelliti

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