Muri, pietre sovrapposte le una alle altre, recinzioni, filo spinato, cellule fotoelettriche, deserto, fiumi, mari. Separatori di umanità, artificiali e naturali. Non sono mai stati così tanti. La “civile” Europa dal 1989 ad oggi ha eretto oltre 1000 chilometri di barriere, sei volte la lunghezza del muro di Berlino che dal 1961 al 1989 ha lasciato sul terreno ben 137 saltatori di muri, martiri della libertà. La maggior parte delle barriere sono state costruite dopo il 2015 per fermare i profughi della guerra in Siria che si andavano aggiungendo a quelli di Afghanistan, Iraq e delle tante carestie. Sono le frontiere della cosiddetta “rotta balcanica”.
Gli anni hanno lasciato nella mia memoria ricordi di confini, passati sempre senza problemi perché io avevo il passaporto giusto. A cominciare proprio dal muro di Berlino che quando lo vidi per la prima volta non sembrava una gran cosa, tutto sommato era solo un muro come se ne vedono tanti nelle periferie delle grandi città. Faceva più impressione vedere i cartelli che indicavano l’uscita dal settore americano e l’ingresso in quello francese o inglese, una città/torta, fatta a spicchi. Poi salivi le scalette alla Porta di Brandeburgo e ti affacciavi dall’altra parte a vedere quelli che non potevano uscire e in quel momento capivi, la nebbia si diradava e tu finalmente vedevi in faccia la storia. I berlinesi al tempo erano tedeschi diversi. Vivevano in questa specie di enclave in territorio “nemico”, sapevano che al primo colpo di cannone la loro vita sarebbe stata stravolta. E alla fine è successo, gioiosamente, nel 1989 quando il muro venne giù in una festosa e liberatoria esplosione di felicità.
Qualche anno prima un altro confine, un’altra faccia della storia. Fresco di diploma alla Southwest High School di Fort Worth Texas faccio il mio viaggio della maturità, zaino in spalle 3 mesi a girare il resto degli USA. Sperimento due opposti confini. Quello a nord passando da Duluth (USA) città natale di Bob Dylan, a Thunder Bay (Canada) lungo la Interstate 65. Il bus della Greyhound quasi non si ferma, una semplice formalità. Poi scendo a sud, molto a sud a El Paso Texas e mi viene in mente di andare in Messico così percorro il Puente de las Americas sul Rio Grande e faccio il mio primo passo dalla ricchezza alla povertà. Percorro pochi metri e sono circondato da tende da campo, giovani uomini e qualche donna si aggirano in attesa della possibilità di passare il confine, in che modo non importa. Tutto è tranquillo però, non c’è tensione, nervosismo. Pochi i controlli e poca la gente di Ciudad Rodrigo come si chiama l’altra metà di questa che, non fosse per il confine, sarebbe un’unica grande città.
Tutt’altra storia, parecchi anni dopo nel mio ennesimo viaggio in USA a cercare di capire questo Paese con le sue tante contraddizioni. Nessun confine è come Tijuana, città di frontiera, 1600000 abitanti ammassati gli uni sugli altri a ridosso di quella linea immaginaria e pure cosi presente che è il confine tra USA e Messico, a sud di San Diego (California). Corridoio della speranza o della disperazione, a seconda dei punti di vista, terra desolata e marginale, schiacciata tra un gigante ricco ed egoista ed uno orgoglioso e povero. Per l’antropologo Néstor García Canclini si tratta di “uno dei maggiori laboratori della postmodernità”. Per lo scrittore di Tijuana Luis Humberto Crosthwaite, è “una città inventata, mutevole e poliedrica”. La scritta “Welcome to Tijuana. Tequila, sexo, marijuana” ripresa anche da Manu Chao in una delle sue canzoni è una delle cartoline simbolo di questo posto. Entro con la mia Chevy noleggiata a San Diego con l’idea di scendere fino a Cabo San Lucas lungo la lingua di terra chiamata Baja California. Non ci arriverò mai, troppi chilometri, troppo sole. Il primo impatto con quello che una volta si chiamava il Terzo Mondo è uno schiaffo in faccia. Si passa in un attimo dall’ordinato traffico californiano, la pulizia asettica delle strade, le poche persone in giro, al caos dei venditori ammassati lungo la strada di ingresso in Messico pronti a venderti ogni sorta di prodotti legali e non che siano. Mi colpisce un ragazzo che vuole ricoprire i finestrini della mia vettura con una pellicola che impedisce di vedere chi ci sia dentro, mi dice che è per la mia sicurezza. Tijuana ha la maggior concentrazione al mondo di farmacie, se ne vedono una dopo l’altra senza soluzione di continuità. Gli statunitensi sono grandi consumatori di farmaci, non si sa se perché molto malati o molto ipocondriaci e qui le medicine si vendono senza ricetta medica. E’ una sanità di confine, economica e permissiva con molti studi dentistici, dermatologici e di chirurgia estetica che vivono dei pazienti transfrontalieri, turisti della salute che vengono a procirarsi quei trattamenti medici che l’opulento vicino non riesce a garantire ai propri cittadini.
Quando si va verso sud si lascia alle spalle il caos, l’umanità, i colori, gli odori di un luogo unico al mondo e ci si immerge in una natura altrettanto unica. La strada scavalca le dune di sabbia lasciando vedere da una parte l’immenso Pacifico e dall’altra il placido e caldo Mar di Cortez. E’ il luogo dove vengono a partorire le balene, un luogo magico e incantato. Quando scende la sera ai margini della strada si accendo, come per incanto, centinaia di lumini. Non capisco, scendo dalla macchina e rimango impietrito, sono gli occhi di decine di coyote che nottetempo si avvicinano alla strada alla ricerca del cibo gettato dai turisti. A Tijuana chiamano coyote quelli che noi chiamavamo spalloni. I nostri portavano zaini carichi di banconote verso le banche svizzere, i loro portano gli “espalda mojada” (schiena bagnata), termine usato dai locali per indicare gli immigrati clandestini in marcia verso gli Stati Uniti.
Gli Yankee che fanno i duri contro gli immigrati finiscono per essere gli stessi che nella frontiera vedono opportunità per attività lecite e illecite. Tijuana, come tutte le città di confine, è diventata il crocevia di un gigantesco traffico di cocaina. Nei bar, nei ristornati, persino nei McDonald’s droga e prostituzione sono alla portata di tutte le tasche e di tutti i gusti. Come nella Cuba di Batista, anche a Tijuana gli Yankee esportano perversioni e vizi lasciando che la loro casa mantenga intatta la propria immagine puritana e bigotta. In questo teatro dell’assurdo che è diventato il confine tra USA e Messico, ognuno finisce per giocare la propria partita. Il governo statunitense radicalizza le sue posizioni per conquistare il voto razzista e il governo messicano ne approfitta per permettersi di protestare per la negazione di quei diritti umani che nel proprio Paese non vengono rispettati. Perché le frontiere sono questo, luoghi che vogliono dividere ma che inevitabilmente uniscono. In una partita impari dove c’è uno dei due contendenti che ha la forza per imporre all’altro le regole del gioco.
Ci sono confini che non si vedono ma che hanno segnato la storia. La giungla, il sentiero Ho Chi Minh, qui il confine che non si vede. Lo attraverso da turista con il fiato sospeso dall’emozione tra Cambogia e Vietnam. Lunghe imbarcazioni traballanti solcano le acque limacciose del Mekong portando innocui turisti come durante i venti lunghi anni della guerra trasportavano rifornimenti ai Viet Cong. Ora non si sente più l’odore acre del napalm ma il fumo dei bracieri che si alza dai villaggi lungo il fiume ci porta l’odore dolciastro dell’insipido pesce locale cotto sulla brace. Su quel confine è stata scritta una pagina di storia che rimarrà indelebile nella memoria di quelli della mia generazione. Sempre in Vietnam, a nord questa volta, un altro confine sembra non esistere. Dalle alture di Sa Pa guardo le colline di Baise nella regione di Guangxi, in Cina. Ci sono coltivazioni di riso ricavate senza soluzione di continuità lungo colline scoscese, terrazzamenti acquitrinosi che splendono sotto i raggi del sole senza che si distingua dove finisce un Paese e dove ne comincia un altro. Eppure quanto sangue e quanta sofferenza nella guerra tra queste indistinte popolazioni accomunate dalla stessa origine mongola.
Altri confini; a settembre del 1990 in piena Guerra del Golfo. Ospiti del ministero del turismo giordano veniamo portati a visitare le bellezze del Paese (Petra, il monte Nebo, Qusayr Amra) ma anche Rwaished al confine con l’Iraq. Una postazione di militari annoiati presidia la linea immaginario che divide il Regno Hascemita dall’antica terra dei Sumeri. In quel punto la strada SS 40 cambia nome e diventa SS 1, entra ad Al Rutba e diventa territorio di guerra. La strada è intasata di camion che portano a Saddam Hussein beni che ufficialmente sono vietati per l’embargo, è l’ipocrisia della guerra. Le merci, come i soldi, a differenza delle persone, si sa non si curano dei confini. Attraversiamo il deserto Wadi Rum, una valle scavata nei millenni dallo scorrere di un fiume nel suolo sabbioso e di roccia granitica, e arriviamo in un altro confine simbolo, quello con Israele. Aqaba ed Elat potrebbero essere una sola città e invece una è la desolante propaggine del deserto che si affaccia sul Mar Rosso e l’altra è una ridente cittadina con il suo verdeggiante lungomare. Gli israeliani hanno cambiato il corso del fiume Giordano affinché entrasse nel loro territorio, un uomo al mercato mi dice che secondo lui la prossima guerra con Israele sarà fatta per il controllo delle risorse idriche. Anche questa è una storia di confine.
Quando si pensa ad un confine, il più delle volte, si pensa ad una linea, come un tratto di penna sulla carta geografica ma per quanto si sforzino per cercarla, i protagonisti di questa continua diaspora tra il sud ed il nord del mondo quella linea non riescono proprio a vederla. Forse è una cosa che si vede solo da lontano, oppure sull’acqua non ne rimane traccia o il tempo l’ha cancellata. O, forse, non è mai esistita. Quello che resta di tutta questa storia sono da una parte gli Stati con le loro regole e le loro procedure, dall’altra le persone, i sogni, le necessità. Quella linea rappresenta solo il confine di uno stato, il confine del lecito e del possibile, il confine tra povertà e dignità, tra il bisogno e la volontà, tra la “giusta misura” e “il di più”. Nella grande storia di un mondo che sta diventando sempre più piccolo rimane solo una domanda: perché di là non si può andare?
Roberto Pergameno
Foto: Marcello Scopelliti