Migrazione e politiche migratorie

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A forza di parlare di barconi, di migranti economici, di invasione ci dimentichiamo non solo dei numeri effettivi ma anche del fenomeno nel suo complesso e delle possibili, anzi, necessarie, soluzioni. Partiamo dai numeri: dall’inizio dell’anno sono approdate in Italia 24.332 persone. Tanto per dare un’idea nel periodo delle primavere arabe e dello scoppio della guerra in Sira (2014-2017) si arrivò ad un picco di 181.436 arrivi. E’ evidente che la nostra percezione di questi eventi è del tutto distorta. Così come regna sovrana l’ignoranza dei motivi per i quali così tante persone migrano. Quando dico tante persone intendo dire i quasi 70 milioni di esseri umani che hanno dovuto lasciare i propri Paesi di residenza soltanto lo scorso anno per i motivi più vari. Quasi il 90% di questi sono migranti di prossimità si fermano, cioè, nel primo luogo che garantisce loro un minimo di sicurezza. Tra le cause delle migrazioni, oltre ovviamente ai conflitti bellici troviamo anche, e sempre più di frequente, motivi legati ai cambiamenti climatici. Tanto per fare un esempio nella zona del lago Ciad, 30 – 40 milioni di persone dipendevano completamente dalle attività legate alle sue acque che rispetto a 30 anni fa ha perso il 90% del bacino idrico. Questo che è solo uno dei tanti esempi della situazione ambientale africana va messo in relazione anche con il boom demografico che vive il continente la cui popolazione si prevede che raddoppierà nei prossimi 30 anni. Più persone a fronte di meno risorse, non una bella prospettiva direi.

Di fronte a questa situazione il nostro approccio al problema è quello di chiuderci, di mettere la polvere sotto il tappeto. Ma non è sempre stato così. Fino al 2007 attraverso canali regolari entrava in Italia il 90% degli immigrati, tra il 2014 e il 2017 gli irregolari sono arrivati a contare poco meno del 40% del flusso e questo è successo perché abbiamo ridotto o eliminato del tutto le quote annuali previste nei cosiddetti “decreti flussi” per i migranti economici extracomunitari, fatta eccezione per i lavoratori stagionali. Oggi è praticamente impossibile per africani o asiatici migrare legalmente nella maggior parte dei paesi europei. Il risultato delle nostre politiche? Prima i migranti arrivavano in Europa in aereo, oggi sui barconi o attraverso la rotta balcanica con tragiche conseguenze per entrambi. La sicurezza nella gestione dei flussi è andata man mano calando sia per i migranti che per le popolazioni locali i cui governi e le loro rappresentanze sul territorio hanno sempre meno capacità di controllo ed interazione.

Cosa fare allora? Un primo passo è sostenere la necessità dell’apertura di canali legali, considerato che chiuderli non ha di certo fermato le partenze. In secondo luogo l’apertura di corridoi umanitari, un programma di trasferimento e integrazione in Italia rivolto a persone in condizioni di particolare vulnerabilità, attraverso la concessione di un visto umanitario. E terzo il coinvolgimento dell’intera comunità europea attraverso una revisione radicale del regolamento di Dublino in base al quale, al momento, il paese competente per riconoscere lo status di protezione internazionale è quello d’ingresso.

Ma queste sono soltanto proposte che tendono a gestire gli arrivi i quali, ovviamente, sono solo la punta dell’iceberg del fenomeno migratorio. Come fermare alla fonte la necessità di migrare (il diritto di farlo rimane intatto sia per logica sia in base a tutti i trattati internazionali i quali riconoscono a tutti gli individui la libertà di movimento)? Tra le tante proposte riporto quelle suggerite da Lorenzo Kamel, professore associato di Storia contemporanea all’Università di Torino.

Esporre e sanzionare l’attuale sfruttamento delle risorse naturali dell’Africa da parte di migliaia di società europee, pubbliche e private, in modo da contrastare alcune delle cause strutturali alla base dei flussi migratori, dunque quelle che ostacolano lo sviluppo di molti Paesi della regione.

Aprire l’Europa ai prodotti realizzati in Africa, decostruendo al contempo l’impressione che “li stiamo aiutando a casa loro”: sebbene i Paesi africani ricevano 31 miliardi di dollari in rimesse, le multinazionali che operano nel continente ‘re-importano’ circa 32 miliardi di dollari l’anno in profitti nei loro Paesi d’origine.

Monitorare e tamponare il flusso di armi prodotte nei Paesi europei e venduti in Africa e nelle regioni del Medio Oriente colpite dalla guerra (Yemen in primis).

Offrire protezione legale e opportunità – attingendo se possibile anche dai 6 miliardi di euro stanziati dall’Ue per rafforzare i propri confini esterni – ai ‘migranti climatici’, ovvero a milioni di individui che lasciano i propri Paesi a causa degli effetti dei cambiamenti climatici.

Abbandonare la gestione della crisi, scommettendo sulla prevenzione della stessa. Ciò include il rifiuto di ogni politica volta a esternalizzare la gestione dei flussi migratori, una pratica che ha generato un boom economico in un ampio numero di centri di transito – alcuni dei quali situati in aree desertiche – e che s’è trasformata in una redditizia industria che trae profitto dai più vulnerabili.

Non facile visti i tempi ma siamo arrivati ad un punto di non ritorno quindi, come recitava una fortunata pubblicità di qualche anno or sono: o così o Pomì, dove Pomì in questo caso è la catastrofe demografica.

Roberto Pergameno

Foto: Marcello Scopelliti

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