Mi chiamo Ba e non scappavo: una recensione senza spoiler

C’è una frase – contenuta nel lungo racconto “Mi chiamo Ba e non scappavo” pubblicato nell’antologia “Come alberi in cammino”, edizioni Terre di mezzo – che da sola suggerisce un’intera idea di letteratura. “Io voglio rendere giustizia dell’invisibile – scrive Ba – di quello che le persone fanno di meraviglioso e che cambia la vita agli altri, anche se nessuno ne sa niente.”

Un’idea di racconto che è prima di tutto un atto di restituzione verso le persone “minori” che tutte insieme fanno La Grande Storia, e poi anche un gesto politico che piega lo strumento del racconto a uno sguardo verso gli ultimi, i dimenticati, tutti quelli che non vengono mai raccontati in questa Società delle immagini che vive di riflettori puntati e narrazioni ad effetto.

Mahamadou Ba questa cosa può farla, perché ha attraversato in prima persona quel viaggio che è forse l’esperienza più forte e rumorosa di tute quelle che compongono La Grande Storia di questi nostri tempi moderni. E, nel farlo, di persone solo apparentemente minori ne ha incontrate centinaia. Esattamente di questo parla il suo lungo racconto, di quel viaggio che ogni giorno da anni porta persone dall’Africa sub sahariana ad attraversare mari e deserti per riuscire a raggiungere l’Europa, inseguendo un sogno che spesso si rivela una chimera. Un viaggio che Ba non ha fatto per bisogno materiale, ma per una necessità ancora più imperiosa: quella di capire cosa sta accadendo alla gioventù africana di questo inizio millennio.

Vincitore – insieme ad altri autori – l’anno scorso nella sezione DIMMI (di storie migranti) del Premio Pieve, organizzato ogni anno dall’Archivio Diaristico Nazionale di Città della Pieve, il racconto di Ba è stato quest’anno stampato in un volume che raccoglie molte altre voci di migranti, ognuno con una storia diversa che racconta – in forma diaristica – il viaggio che li ha condotti dai loro paesi di origine in Italia.

Il racconto di Ba, del viaggio che dal Mali lo ha condotto prima attraverso l’Africa e poi in Italia, si snoda fluido con uno stile orale che ricorda la tradizione dei griot del suo paese di origine, i cantastorie che attraversavano il deserto per narrare storie – e costruire una cultura orale su cui si basa una civiltà multietnica e millenaria. Coraggiosamente, l’autore ha deciso di editare solo parzialmente il suo testo, mantenendo quel tono diretto di cui si nutre il racconto, anche se in una lingua che non è il nativo fulani, e neanche il francese imparato a scuola, ma l’italiano talvolta incerto appreso e parlato dagli africani immigrati nel nostro paese. E come in Terra Matta – il diario di Vincenzo Rabito, vincitore della prima edizione del Premio Pieve e diventato in breve tempo un vero caso letterario – le imperfezioni sintattiche e le asprezze grammaticali sottolineano e magnificano ancora di più l’impatto di una narrazione composta solo di fatti, avvenimenti, cose accadute nella vita di Ba e che quotidianamente continuano ad accadere nella vita di molti viaggiatori come lui.

Perché è il termine viaggiatore – e non migrante, immigrato o rifugiato – quello che dobbiamo tenere a mente quando leggiamo la storia di Ba. E lui ce lo dice fin dall’inizio, con quel titolo che è insieme una salda dichiarazione di identità e una dichiarazione che non lascia adito a dubbi: Mi chiamo Ba e non scappavo.

Mahamadou Ba sarà presente sabato 15 ottobre alle ore 19.00 al Weekend letterari Fest, presso il centro AMAL FOR EDUCATION, in via Casilina 46-48, Roma

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