Ieri sera mi ha chiamato Jack. Ci conosciamo da quando, sei o sette anni fa, dopo essere sbarcato a Lampedusa su un barcone e trasportato in qualche porto siciliano, è arrivato con un pullman militare a Latina, in carico alla SPRAR presso cui lavoravo. Jack veniva da un paese dell’Africa sub-sahariana che in quel periodo era contemporaneamente devastato da una guerra civile e da un’epidemia di Ebola, al confronto delle quali la traversata del Sahara e quella del Mediterraneo – con annesso rituale soggiorno presso qualche lager libico – sembravano comunque il male minore, per un ragazzo di 24 anni com’era lui allora.
E della stessa opinione è stata la Commissione territoriale che, dopo un’attesa di quasi tre anni dal suo arrivo in Italia, gli ha rilasciato il permesso di soggiorno per motivi umanitari rendendolo un cittadino libero di vivere, lavorare e circolare nell’area Schengen. Un momento liberatorio che coincide però anche con l’immediata uscita dai servizi e il bisogno di trovarsi una casa, un lavoro e tutto quello che serve per vivere. Il tutto ovviamente dopo aver trascorso anni in una situazione di sospensione esistenziale, dove tutte quelle che sono le ordinarie incombenze di un adulto, dalle bollette alle visite mediche, sono mediate dalla paternalistica presenza della cooperativa di turno.
Volitivo e intelligente com’è, Jack ha comunque impiegato pochi giorni a trovarsi un lavoro in un pub, dove ha perfezionato il suo italiano e la sua conoscenza del paese reale, fino a iscriversi a un corso professionale e diventare un addetto alla security. Durante la pandemia, in quelle uscite al supermercato che costituivano l’unica forma di socializzazione consentita, la chiacchierata con lui era diventata per me un appuntamento fisso, attraverso cui era facile misurare i suoi progressi con l’italiano, che pian piano sostituiva l’inglese con cui avevamo sempre comunicato.
Finita la pandemia, per Jack è finito anche quel lavoro – a distanza di anni in sospeso restano ancora sei mensilità e il TFR – ma Jack non si è scoraggiato e si è trovato un altro impiego – nelle celle frigorifere di uno stabilimento di surgelati – fino ad approdare a quello attuale, all’interno di una cooperativa che opera all’interno di un grande aeroporto della capitale.
“Il lavoro non è un problema – mi ha d’altronde sempre detto Jack – il problema vero è la casa.”
Da quando infatti è uscito dal circuito SPRAR – quattro anni fa – non è mai riuscito ad abitare in una casa dove gli fosse possibile richiedere la residenza. Case affittate in nero e spesso richieste indietro con preavvisi di una, massimo due settimane, che non permettono di risolvere il principale problema per riuscire a definire tutta la sfera di legalità e servizi di cui usufruiamo tutti, dall’assistenza medica a ogni genere di servizi per la persona.
Nella casa dove abita ormai da sei mesi – un miniappartamento che tanti amici, tra cui il sottoscritto, lo hanno spinto a prendere in nome dell’emergenza nonostante la sua riluttanza davanti ai suoi tanti limiti (Un passo alla volta e vedrai che si sistema tutto, abbi fede!) – Jack m’informa al telefono che non può chiedere la residenza, perché non è un locale ad uso abitativo, e che quindi lui si ritrova un’altra volta da punto a capo.
“Va bene – rispondo io – ma se adesso lavori a Fiumicino, conviene che ti cerchi una casa più vicino al lavoro.”
“E come? – mi dice lui – Sono mesi che cerco, ma appena sentono un accento straniero mi dicono che la casa non è più disponibile.”
E qui ricomincia una storia che ho sentito centinaia di volte, da lui e da tanti altri come lui. L’impossibilità di trovare una casa ad un affitto legale se hai la pelle nera o, talvolta, semplicemente l’accento sbagliato.
Jack mi spiega che adesso ha uno stipendio più che decente, è tutto in regola, il suo datore di lavoro è anche disposto a offrirsi come garante, ma lui semplicemente, non riesce neanche a farsi ascoltare. Mi racconta che si è fatto a piedi il giro delle agenzie immobiliari di Aprilia, e che vedeva annunci appena messi in bacheca che alla sua richiesta venivano dichiarati già presi.
“Ti giuro – mi racconta Jack al telefono – li avevo visti io dalla strada che li mettevano su due minuti prima…” e io gli rispondo che non c’è bisogno di giurare, che lo so e non faccio nessuna fatica a credergli.
Mi ricorda che il contratto di casa è fondamentale per la residenza e che senza di quella ci saranno problemi seri al momento della scadenza del suo permesso.
“Quando scade?” gli domando.
“Tra un anno” risponde lui, e in quella risposta vedo tutta l’ansia e le pressioni che si accumuleranno nella sua mente per i prossimi dodici mesi, in una cascata di preoccupazioni che noi, gente di pelle bianca, non conosciamo proprio.
E quindi rimango ad ascoltarlo in un delirio d’impotenza, la sua e la mia che vorrei aiutarlo, mentre mi racconta di tutte le volte che ha provato a informarsi e gli è stato sbattuto il telefono in faccia, e di quando i si diventavano no alla vista della sua pelle scura, e case sfitte da mesi si riempivano magicamente di nuovi inquilini appena lui avanzava richieste di informazioni (“però il giorno dopo sono andato a controllare e l’annuncio non l’avevano mica tolto, dal web!”) e di tutte le volte che aveva toccato con mano l’innegabile realtà: nemmeno i sudatissimi documenti in regola, il lavoro fisso e uno stipendio più che decente cancellavano il fatto che era un africano.
“Ho fatto tutto quello che mi è stato chiesto in questi anni – dice Jack – mi sono attenuto a tutte le regole che mi è stato richiesto di rispettare. Sono andato a scuola, lavoro con onestà, non ho mai avuto problemi con la legge: quando finirà questa storia e potrò avere una vita normale come tutti quanti?”
La sua domanda cade nel silenzio, ovviamente, in un momento in cui la preoccupazione maggiore della politica italiana sembra quella di definirsi – madri, padri, cristiani, non razzisti etc etc – senza mai riconoscere il fatto che ciò che ci definisce – a tutti – non è quello che pensiamo ma come agiamo nella realtà dei fatti. E la realtà di questo paese è al momento fatta di grandi tragedie come quella di Cutro e di piccole tragedie come quella di Jack.
“L’Italia – ci ricorda Roberto Pergameno di Emergency – è l’unico Paese tra quelli maggiormente interessati ai flussi migratori a non aver elaborato, nel corso degli ultimi decenni, un proprio approccio teorico all’accoglienza e all’integrazione delle persone appartenenti a comunità con proprie consolidate caratteristiche socio culturali, religiose ed etniche.”
Ed è questa è la situazione vera: la vita dopo la pacchia è peggio ancora della pacchia, se con questa intendiamo i tre anni – al posto dei sei mesi come da normativa europea – trascorsi da Jack in attesa di un verdetto della commissione che doveva stabilire il suo diritto a vivere in un paese senza guerre civili ed epidemie di Ebola.
(PS: se qualcuno sa di appartamenti in affitto da parte di proprietari disposti ad accettare inquilini di pelle nera, nelle zone di Aprilia, Pomezia, Torvaianica, Ostia e Fiumicino, per favori ci contatti alla nostra mail collettivoprimocontatto@gmail.com )
testo: Carlo Miccio
foto: Marcello Scopelliti