Joe era mio amico

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Il 13 gennaio è stata eseguita la condanna a morte per Lisa Montgomery, condannata per un delitto efferato commesso nel 2004. Un paio di giorni dopo rimettendo ordine tra vecchie cose, sono usciti fuori due biglietti. Il primo è una cartolina scritta metà in italiano e metà in inglese con gli auguri per il Natale 2000. Il secondo è un semplice biglietto azzurro 10 cm x 4 cm, mi arrivò dentro una busta gialla senza altre spiegazioni. Il biglietto recita semplicemente: “This is a FREE TICKET It’s not good for anything IT’S JUST FREE”.  Entrambi mi sono arrivati dal braccio della morte del carcere di Boise nell’Idaho. Il latore di queste due missive era Joe, un detenuto in attesa di esecuzione con il quale ho avuto una corrispondenza durata due anni. Durante questo periodo mi ha scritto altre due volte, in questo caso si trattò di due lettere nelle quali mi ha raccontato la sua storia. Era stato condannato per omicidio di primo grado per l’uccisione di un uomo durante una rapina, secondo la sua versione dei fatti a commettere l’omicidio fu suo fratello. Al tempo girava per l’Italia, per iniziativa di un’associazione che si batteva contro la pena di morte, una mostra fotografica con immagini che lo ritraevano insieme al fratello prima dell’arresto oltre a foto del processo e del carcere di Boise. Fu tramite questa organizzazione che mi misi in contatto con Joe. Quando scrissi la prima lettera non ero sicuro che gli sarebbe stata recapitata, mi sembrava così irreale che ci si potesse mettere in contatto con un detenuto recluso in uno dei famigerati bracci della morte. E invece gli arrivò e cominciò da quel momento una corrispondenza non fitta ma significativa ed intensa. Da quelle lettere emergeva un’umanità dolente ma ancora lucida, una forza vitale che resisteva all’evidenza di una vita inumana fatta di privazioni ma anche di un futuro negato, tanto la sua vita era legata alle decisioni di un giudice che avrebbe potuto spegnerla in qualsiasi momento. Era strano il suo interesse per me, la mia vita, la mia famiglia, lui che una vita non l’aveva più.

Gli Stati Uniti d’America sono un Paese strano, decantato come la più grande democrazia del mondo, secondo uno studio di qualche anno fa (ma non risulta che ci siano stati miglioramenti nel frattempo), ha 2.250.000 suoi concittadini in carcere, si tratta di 726 detenuti ogni 100.000 abitanti, un tragico record mondiale. Sono numeri spaventosi che non descrivono certo una società in pace con se stessa. Le statistiche sulla popolazione carceraria raccontano anche un altro aspetto della società americana, quello raziale, come è ben evidenziato dall’analisi dal prof. Claudio Giusti membro del Comitato scientifico dell’Osservatorio sulla Legalità e i Diritti: “Metà dei detenuti sono afro-americani. Se il tasso d’incarcerazione per i bianchi è di 393 per 100.000, per i neri è 2.531. Se poi si considerano solo i maschi il tasso per i bianchi sale a 717, mentre per i neri arriva a 4.919, ma in molti Stati supera abbondantemente quota 10.000. Non stupisce quindi che in un quarto degli USA il 10% dei maschi neri adulti sia in galera….Trent’anni fa, nelle carceri federali e statali, c’erano 200.000 detenuti, oggi sono 2.250.000: il più grande esperimento di imprigionamento di massa dai tempi di Stalin.” L’ex governatore dell’Illinois George Ryan ebbe modo di dire che il sistema giudiziario americano non è in grado di stabilire chi è innocente, chi è colpevole e nemmeno il grado di colpevolezza. I miei personali ricordi mi portano a molti anni addietro quando ebbi modo di incontrare il giudice federale Sarah T. Hughes durante una visita al tribunale federale di Dallas (Texas). Sarah T. Hughes era la giudice nelle mani della quale Lindon Johnson, il 22 novembre del 1963 giurò come 37° Presidente a bordo dell’Air Force One all’Aeroporto di Dallas-Love subito dopo la morte di John Fitzgerald Kennedy. In quell’occasione la giudice si lanciò, davanti a noi giovani ed inesperti studenti, in una narrazione del sistema giudiziario americano dalla quale gli USA ne uscivano come la patria della giustizia e dell’equità. La realtà, ad una più attenta ed approfondita analisi, sembra essere tutt’altra.

Per tornare alla pena capitale dobbiamo ricordare nel braccio della morte ci sono attualmente circa 3.400 persone fra cui alcuni innocenti e molti con evidenti problemi psichici. Il solo Texas della giudice Hughes ha portato ad esecuzione un terzo del totale delle condanne comminate. 121 detenuti nei bracci della morte sono stati ritenuti innocenti e rilasciati dopo anni di ingiusta detenzione. Non è dato di sapere quanti innocenti siano stati uccisi, ma “vista la scarsa qualità dei processi americani, devono essere stati molti”(cit.). Joe era uno di questi, uno dei 3.400 esseri umani sprofondato in quel girone dantesco che sono le carceri americane. Il fatto che si proclamasse innocente o che lo fosse realmente non sposta di un millimetro il giudizio sula pena di morte nel suo complesso. Da qualsiasi punto di vista lo si voglia vedere, questo istituto non può essere accettato in una società che voglia dirsi libera e democratica. Non lo è da punto vista etico, perché viola il diritto alla vita. Non lo è dal punto di vista sociale perché nessuno studio ha mai dimostrato che la pena di morte sia un deterrente più efficace di altre punizioni. Perché la pena di morte è un sintomo di una cultura di violenza, non una soluzione a essa. Perché nega la possibilità della riabilitazione sostituendo il concetto di equità della pena con quello di vendetta.

Ho continuato a sostenere Joe per quello che ho potuto, ho sperato di ricevere la notizia della revisione del processo così da riuscire almeno a commutare la pena capitale in una pena detentiva. Per due anni il filo non si è interrotto, la speranza è rimasta viva. Poi Joe ha smesso di scrivermi.

Roberto Pergameno

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