Oggi ricorre un mese esatto dalla scomparsa di Shuhada’ Sadaqat, meglio conosciuta con il nome di Sinéad o’Connor. Qualcuno può domandarsi cosa c’entri la commemorazione di una musicista pop nel sito di un’associazione che si occupa di giustizia sociale, e la risposta è presto detta: tutta la pratica artistica della cantante irlandese (e non solo le sue performance, ma la pratica intesa proprio come l’orizzonte intero del suo processo creativo) si è plasmata fin dall’inizio su un’angosciata richiesta di maggior giustizia sociale. Tutti gli episodi salienti della sua carriera, cioè quei momenti solitamente utilizzati dai musicisti per aumentare la propria popolarità e vendere più dischi, furono invece da lei usati per dar spazio e visibilità a temi che inevitabilmente riconducevano alla giustizia sociale: dalla testa rasata come aperto rifiuto alla glamourizzazione del suo personaggio da parte dell’industria discografica, alla foto di Wojtilya strappata in diretta televisiva per protestare contro gli abusi sessuali di cui la chiesa cattolica si è resa per secoli colpevole nella sua originaria terra d’Irlanda, fino al rifiuto dei Grammy award per protesta contro l’emarginazione dei rapper e delle sottoculture nere dalla premiazione.
E anche le sue apparizioni collaterali erano sempre segnate da una volontà di militanza, come testimonia la sua comparsa nell’edizione natalizia irlandese di Chi vuol essere milionario* dove Sinéad devolve soldi e parole a favore dei servizi di cura della salute mentale della città di Limerick – “una città dove il tasso di suicidi è così alto che le autorità hanno smesso di rilasciare dati ufficiali” afferma lei stessa in diretta televisiva. Limerick, città natale di un’altra famosa cantante irlandese, Dolores O’ Riordan, sua amica e collega con cui aveva anche collaborato artisticamente, annegata nella sua vasca da bagno nel 2018, con una quantità di alcol nel sangue quattro volte superiore al limite consentito per la guida.
Il sottoscritto, come quasi tutti, scoprì la grandezza artistica di Sinéad quando uscì quella che è oggi universalmente riconosciuta come una delle migliori interpretazioni di sempre della storia della musica pop, che a soli vent’anni le guadagnò popolarità internazionale, dischi d’oro e di platino e uno status da affermata popstar a cui lei sembrava reagire con un certo fastidio. Una canzone scritta originariamente da Prince che narrava di un amore interrotto, e che lei rivestì di un’intenzione ancora più struggente interpretandola con in mente gli abusi subiti da sua madre nel corso della sua infanzia. Una madre sofferente di patologie mentali che resero la vita della piccola Sinéad un martirio quotidiano, e che lei riuscì a raccontare in uno dei suoi pezzi più sofferti, Fire on Babylon.
Cresciuta in un ambiente così abusante, Sinéad imparò molto presto a riconoscere e difendersi anche dagli abusi dell’industria discografica, della società dello spettacolo, del patriarcato e dell’intolleranza religiosa di cui era impregnata la cultura dominante della sua natia Irlanda. E lo fece attraverso pratiche reali, con un senso di eterna rivolta e forte di una dimensione spirituale che contrassegnava la sua creatività così come il suo profilo pubblico, perseguendo un percorso musicale assolutamente originale e impreziosito da tantissime collaborazioni di valore e prestigio (da Peter Gabriel ai Massive Attack, dagli AfroCelt SoundSystem all’Asian Dub Foundation fino agli strepitosi duetti con Jah Wobble).
Poi, nel 2014, Sinéad ebbe un tracollo particolarmente forte, a cui seguì una diagnosi di depressione bipolare maggiore – poi rimodulata in schizofrenia – e un lungo periodo di ospedalizzazione. In quegli anni si ritrovò spesso a vomitare sui social lunghe invettive di delirio psicotico, non di rado rivolte ai suoi stessi figli, accusati pubblicamente – come spesso accade ai parenti di chi soffre di un disturbo importante – di essere i suoi persecutori e di non andare a liberarla. Da figlia di madre psicotica abusante, Sinéad si era trasformata lei stessa nel mostro a due teste che sparge amore e odio a corrente alternata, infliggendo ai suoi figli una versione tecnologicamente aggiornata degli stessi veleni di cui era stata vittima da bambina. In quel periodo io stavo scrivendo un romanzo sulla relazione tra un padre psicotico e un figlio incapace di mettere insieme tutti i pezzi del quadro, e spinto da un ideale di solidarietà e fratellanza chiesi amicizia a Sinéad su Facebook: un profilo aperto, da cui trasudavano angoscia e dolore, ma anche tanti messaggi di solidarietà e amore da parte di tanti fans che, come me, cercavano – invano – con i loro messaggi di aiutarla a sentirsi meno sola. Io, da parte mia, non riuscivo però a non pensare soprattutto ai figli di Sinéad, e a quanto avrebbe potuto essere stata diversa (in peggio) la mia vita se – quando avevo l’età di Shane, l’ultimo dei suoi quattro figli – il mostro a due teste che in quel periodo albergava nell’animo di mio padre si fosse potuto esprimere sui social in quei toni e modalità (Davanti al mondo! Davanti a tutti i miei amici!) Pensavo al loro dolore, ma anche a quanto ero stato fortunato, almeno sotto quel punto di vista, ad essermi evitato questo ulteriore macigno, e pazienza se di sottofondo a questa gratitudine c’è un senso da boomer nostalgico.
Lo scorso anno quel loop di rabbia, dolore e malattia in cui si era incastonata la vita di Sinéad O’Connor si è concretizzato nel suicidio di Shane, definito dalla cantante “the very light of my life” e scomparso all’età di 17 anni. Un loop che si chiudeva completamente un mese fa con la morte di Sinéad: un decesso di cui la famiglia non ha lasciato per fortuna trapelare i dettagli, ma che ai miei occhi poco conta se sia dovuto a un suicidio o a semplice crepacuore. Il dolore, quando diventa intollerabile, semplicemente ti schiaccia, e alla fine mica importa tanto il come.
“Sono da sola, tutti mi trattano male e sono malata” aveva dichiarato nel 2017 in un video pubblicato sui social, ed è quella l’unica cosa che conta: la solitudine come unica misura possibile di un male altrimenti inesprimibile e indescrivibile.
Oggi nel resto del mondo è sempre più chiaro quanto i legami familiari (come la storia di Sinéad e della sua famiglia testimonia chiaramente) quando diventano disfunzionali possano essere veicoli fondamentali per la propagazione del disagio mentale, ma in Italia si stenta ancora ad ammetterlo, arroccati come siamo su questa mitologica e irrealistica costruzione culturale che va sotto il nome di “famiglia tradizionale”, panacea di tutti i mali nella vulgata ufficiale ma spesso veicolo preferito del contagio. Tra le poche meritorie eccezioni, c’è il COMIP, un’associazione composta da figli di persone che soffrono di patologie mentali e che fa informazione e advocacy proprio a favore dei tanti ragazzi e ragazze che si ritrovano ad affrontare la convivenza con la malattia psichiatrica di una persona che si ama.
Rimuovere lo stigma intorno alla malattia sociale, far sentire meno solo e sbagliato chi ne soffre, è una necessità sempre più forte, in una società che chiede adeguamento a ritmi e ideali sempre meno razionali e sempre più competitivi. Parlare di salute mentale in maniera diversa dai toni emergenziali e spettacolarizzanti a cui ci hanno abituato i media contemporanei è diventata una necessità collettiva, di cui abbiamo bisogno tutti. Noi lo faremo in una maniera particolare a Cori (Lt) dal 12 al 15 ottobre prossimo, insieme a un gran numero di ospiti e realtà – importanti ma spesso invisibili – che operano in questo settore. Sarà un vero e proprio festival, con dibattiti, spettacoli teatrali e partite di calcio, organizzato da noi del Collettivo Primo Contatto in collaborazione con l’Associazione Polygonal e la Biblioteca Civica Filippo Accrocca. Un festival che si chiamerà InSania – contronarrazioni della follia – e che ci tenevamo particolarmente ad annunciare in questa giornata, legandolo al ricordo di chi quel dolore ha saputo narrarlo con coraggio e infinita diginità. Per il calendario ufficiale, stay tuned. E tranquilli che, in qualche maniera, lo spirito di Sinéad aleggerà su di noi per tutta la durata del festival.
*Il video della puntata di “Chi vuole essere milionario” è visibile qui. Sinead appare dal minuto 38.10. Sfidiamo chiunque ad arrivare alla fine senza innamorarsi.
Testo: Carlo Miccio
Foto di copertina: Marcello Scopelliti
Foto di chiusura: Emiliana Peruzzo
Altre foto: dal web