Io non sono razzista! Una frase sentita chissà quante volte da ognuno di noi, quasi sempre declamata con tono d’indiscutibile certezza. Tono che, ogni volta, m’impedisce di prendere sul serio chi quelle parole pronuncia.
Perché io questa certezza, per quanto mi riguarda, non ce l’ho mica.
Personalmente, dopo 30 anni di militanza in associazioni antirazziste, un curriculum da mediatore in CAS e SPRAR, incarichi da interprete in commissione ministeriale, decine di eventi organizzati nel nome del verbo antirazzista – feste, convegni, proiezioni, concerti, cineforum, presentazioni di libri, trasmissioni radio – io da questo rischio non mi sento affatto immune.
Se c’è una cosa che ho capito del razzismo è che non è un’idea, ma una pratica. Tutti, nessuno escluso, possono avere pensieri, dire parole, compiere gesti che sono razzisti. Anzi, che sono razzismo.
Insomma, la sicurezza di non essere mai razzista, io per quanto mi riguarda non ce l’ho. Non mi appartiene. Mi sembra piuttosto che il razzismo sia fatto da piccoli gesti, talvolta addirittura inconsci e difficili da riconoscere, in cui a volte capita di inciampare a tutti. Quindi anche a me.
Ci si può indignare per Black Lives Matter e poi controllare il portafoglio in tasca quando un nero si siede accanto a noi sull’autobus, si può litigare per ore con i razzisti su Facebook e poi dimenticarsi sistematicamente di dare del lei agli abbronzati, si può contestare l’ideologia delle ruspe della lega ma avere la loro stessa paura degli zingari.
Si può – addirittura – pensare che inclusione significhi far diventare tutti uguali a noi e che l’integrazione si faccia mangiando salsicce di carne suina: tutto è possibile all’umana ambivalenza, e comunque ci sono più cose tra cielo e terra di quante ne possa contenere la nostra immaginazione.
A me sembra invece che il razzismo sia una cosa piccola e tossica, capace d’insinuarsi come polveri sottili nei gesti, pensieri e parole della nostra pratica quotidiana. Crederci immuni da questo rischio è utile solo al nostro ego: semplicemente, serve a farci sentire migliori degli altri.
E sentirsi migliori degli altri, guarda caso, è proprio la leva su cui poggia ogni tipo di prepotenza. In primis, il razzismo, che tra le possibili prepotenze di cui è capace il genere umano è una delle più archetipiche.
Ecco perché non riesco a prenderli sul serio, quelli che dicono di non essere razzisti. È più forte di me: non ci riesco proprio.
Carlo Miccio
Foto: Marcello Scopelliti