Etnocentrismo, turbofinanza & calciomercato

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Come purtroppo molti di noi sanno benissimo, per un tifoso di calcio l’estate è il momento di massima angoscia. È lì che il calciomercato ridefinisce rosa e identità della squadra del cuore, e il supporter si trova spesso a dover rinunciare e sostituire i propri oggetti d’amore, cioè i giocatori del proprio team.
Una sensazione di perenne horror vacui che quest’anno si è ulteriormente aggravata con l’irruzione in pompa magna – e immensi capitali – degli arabi nel grande calcio. E per arabi ovviamente intendiamo una minima parte della popolazione mondiale che si riconosce in quella definizione: per l’esattezza, parliamo dell’Arabia Saudita e di alcuni dei ricchissimi emirati del Golfo Persico.

In passato non erano mancati tentativi di sottrarre al calcio europeo la sua centralità planetaria: gli USA e, in maniera minore, India e Cina cercano da tempo di insidiare il primato al vecchio continente, ma si erano finora limitati all’acquisto di giocatori di seconda fascia o campioni a fine carriera – un trend confermato anche quest’anno dal trasferimento di Lionel Messi in Florida, attraverso un’operazione orchestrata dalla sapiente regia di David Beckham, uno dei massimi conoscitori di quel mondo di mezzo sospeso tra sport e marketing. Quello che invece stanno facendo gli arabi quest’anno è qualcosa di totalmente nuovo: l’acquisto di alcune delle stelle più brillanti del firmamento pallonaro, attratte da compensi decisamente fuori scala rispetto alle norme imposte dal Fair Play finanziario europeo, è qualcosa di così impattante sullo status quo da riuscire a mettere a rischio la finora indiscussa centralità del pubblico europeo come consumatore privilegiato del grande calcio internazionale.

Da sempre infatti il calcio moderno è ritenuto per diritto acquisito un fenomeno sì mondiale, ma comunque ad esclusiva propulsione eurocentrica: sono i grandi club europei quelli che attraggono manodopera da tutto il resto del mondo, in virtù di un maggior potere economico che gli permette di controllare l’intero calendario internazionale per tararlo su tempi e bisogni del vecchio continente. In passato abbiamo assistito a finali mondiali (Messico 86, USA 94) giocate in condizioni ed orari assurdi per permetterne la trasmissione in prima serata al pubblico europeo – un orario che ovviamente coincide con il prime time televisivo in cui più forte è la richiesta degli inserzionisti e maggiore la visibilità per gli sponsor. E ancora, pensiamo alle polemiche che accompagnano ogni edizione della Coppa d’Africa, che si gioca in inverno costringendo molti club europei a privarsi di giocatori chiave in un periodo cruciale dell’anno: la proposta europea è spostare la Coppa d’Africa in estate, notoriamente il periodo migliore per giocare a pallone in Africa, a conferma ulteriore di quanto etnocentrica – e in particolare eurocentrica – sia la visione da parte delle alte gerarchie pallonare europee.

La ragione di questo eurocentrismo viene da sempre fatta risalire ai natali di questo sport: nato in Inghilterra nel pieno della rivoluzione industriale, il calcio può a buona ragione venire considerato un derivato del capitalismo, al cui modello deve la sua stessa organizzazione interna, tanto più dopo essere stato usato – in congiunzione con il cricket – proprio dai britannici come estensione del loro dominio imperiale nelle colonie e nelle aree d’insediamento commerciale da essi controllate. Neanche l’Italia fa eccezione – come fa notare Daniele Camilli nel suo libro Contropiede. Breve discorso sopra il metodo del calcio – se pensiamo che il calcio si diffuse originariamente all’interno del triangolo industriale Torino-Milano-Genova, stabilendo un’egemonia che dura fino ai giorni nostri. E tra l’altro, con una significativa coincidenza dall’alto valore simbolico per quanto riguarda le relazioni tra masse, potere e capitale: nello stesso giorno infatti in cui a Torino il Genoa cricket&football club si aggiudicava il primo scudetto tricolore, l’8 maggio del 1898, a Milano l’esercito regio guidato da Bava Beccaris prendeva a cannonate una folla di manifestanti che protestavano per l’aumento del prezzo del pane, uccidendo 81 civili e ferendone moltissimi altri, a sottolineare il primato dell’economia sui bisogni umani.

Nessuna sorpresa quindi se oggi a uno spostamento del potere economico corrisponde uno spostamento di una delle sue più produttive industrie, quale è oggi quella del calcio. Nulla è cambiato, se non il fatto che le loro economie sono diventate più aggressive ed arrembanti (e di conseguenza vincenti) delle nostre: a fronte degli enormi investimenti da parte di fondi partecipati dagli stessi governi centrali e disposti a spendere somme mai viste – somme che incidentalmente quantificano con estrema precisione la dipendenza planetaria dai carburanti fossili – non è forse fisiologico che il baricentro del giocattolo si sposti dove abbonda il capitale? D’altronde, è nella natura stessa del capitalismo sviluppare questo genere di dinamiche, in un momento in cui il prodotto calcio – venduto come spettacolo – alimenta turnover miliardari e si presenta come il prodotto ideale in quella che Guy Debord definiva per l’appunto La società dello spettacolo. E non è forse un grande spettacolo quello che i telecronisti auspicano sempre all’inizio di ogni partita importante?

In realtà, la penetrazione dei paesi del golfo nel grande calcio non inizia oggi, ma ha una data di nascita ben precisa: 23 novembre 2010, data dell’infausta cena all’Eliseo tra l’allora presidente francese Nicolas Sarkozy, l’allora presidente UEFA Michel Platini e l’emiro qatariota Tamin Ben Hamad Al Thani, divenuto oggi capo di stato del paese. Quella sera, insieme ad accordi commerciali che prevedevano la compravendita di network televisivi e aerei da guerra, venne deciso anche l’acquisto del Paris Saint Germain da parte di un fondo d’investimento di proprietà del governo qatariota e pianificata l’assegnazione fraudolenta (avvenuta solo un mese dopo) dei mondiali 2022 al Qatar. I fatti di quella serata hanno generato l’indagine conosciuta come FifaGate , ma da lì lo strapotere dei petrodollari iniziò a manifestarsi con arrogante regolarità sul calcio europeo, vuoi attraverso l’acquisto di grandi club (Manchester City e Newcastle, oltre al già citato PSG) e vuoi attraverso l’acquisizione dei diritti per alcune importanti competizioni nazionali (come la Coppa del Rey spagnola e la nostra Coppa Italia) che da qualche anno giocano in medio oriente le fasi finali, in cambio di cascate di soldi alle rispettive federazioni.

E però, scorrendo la lista dei giocatori che quest’estate si sono trasferiti nella Saudi League (che da quest’anno verrà per la prima volta trasmessa su canali televisivi europei, generando un primo importante ritorno economico che riporta a casa parte di quei capitali investiti nell’acquisto dei calciatori), sorge il dubbio che i soldi non siano l’unico pull factor a disposizione del campionato saudita. Come fa notare Rivista Undici, in molti casi – Karim Benzema, N’Golo Kante, Edouard Mendy, Kalidou Koulibaly, Seko Fofana, Moussa Dembele, Riyad Mahrez e Sadio Mané – si tratta di musulmani praticanti e, per dirla con le parole di Mesut Özil, musulmano e campione del mondo con la Germania nel 2014, «un musulmano praticante ha i suoi vantaggi a giocare in Arabia Saudita: se prega cinque volte al giorno, se ci tiene a mangiare soltanto cibo Halal, vivere in un ambiente profondamente religioso può essere determinante».

L’Arabia Saudita è una monarchia teocratica, dove l’élite al potere si richiama apertamente al Wahhabismo, una delle correnti più radicali dell’Islam: la sharia è una fonte del diritto e ogni aspetto della convivenza sociale viene regolato sulla base di precise norme religiose. Ovviamente, a questa regolamentazione non sfugge neanche il calcio, per cui a quei giocatori non verrà più chiesto di giocare a stomaco vuoto durante il ramadan, rischiando figuracce in campo e una svalutazione del proprio valore di mercato, né assisteremo più a scene di calciatori che un quarto d’ora dopo il tramonto corrono a bordo campo per alimentarsi e dissetarsi: i giocatori di fede islamica non saranno più, per la prima volta nella loro carriera, considerati un’eccezione o – peggio ancora – un’imprevista rottura di scatole nell’organizzazione del calendario e nella pianificazione del calcio giocato. Non saranno più loro, ad essere i diversi.

Ecco quindi che quello che inizia a profilarsi all’orizzonte è una sorta di campionato halal, l’unico forse possibile nella nazione che ospita i luoghi sacri dell’Islam, che a loro volta alimentano un turismo religioso di dimensioni planetarie e capace di generare anch’esso torrenti di denaro liquido: una risorsa di cui le stelle musulmane della Saudi League si fanno tra l’altro testimonial, generando l’ennesimo cortocircuito tra calcio, profitti e identità religiosa. 

D’altronde, come ci ricorda Lorenzo Declich nel suo ottimo lavoro L’Islam nudo: le spoglie di una civiltà nel mercato globale, (scaricabile gratuitamente qui) da tempo le plutocrazie wahhabite alimentano un’economia che utilizza la religione come strumento identitario capace di far vendere più merci. Lo stesso concetto halal, ovverossia ciò che è permesso dalle norme coraniche, applicato ad un mercato globale diventa una categoria merceologica capace di moltiplicare il suo appeal verso uno sterminato mercato di consumatori, sparsi in ogni angolo del pianeta. Un’economia di cui il calcio oggi rappresenta un ulteriore e brillantissimo tassello, nel mondo descritto 56 anni fa da Guy Debord e da tutti noi abitato oggi, dove lo spettacolo costituisce la mercanzia finale, il bene supremo capace di produrre immaginari collettivi e profitti miliardari.

Testo: Carlo Miccio
Foto: dal web

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