Sono passate due settimane dalla scellerata invasione dell’Ucraina voluta da Putin, documentata in ogni aspetto da un’ipertrofia mediatica che in qualche maniera fa paura alle stesse vittime, come ci racconta Francesca Mannocchi dal fronte.
Non siamo stati in pochi a notare che al machismo tossico ultra-nazionalista di cui si nutre la propaganda russa si contrappongono da parte di Zelensky speculari richiami a un’eroica resistenza fino all’ultima goccia di sangue, accompagnati sempre da appelli disperati agli alleati occidentali per un invio di armi che rendano questo versamento di sangue possibile.
Come sempre accade, vittima e carnefice hanno bisogno di un codice comune per entrare in relazione, e quel codice diventa la retorica della guerra e della patria, assurta a valore superiore a qualunque vita umana.
Ma se da una parte è impossibile – oltre che ingiusto – giudicare con il nostro metro chi si trova schiacciato dalla violenza del conflitto armato (cosa farei io al posto loro? è la domanda che rimbalza in ogni cervello pensante al momento) è altrettanto vero che chiunque si presti dall’esterno ad alimentare retoriche che puntano al massimo spargimento di sangue si rende in qualche maniera responsabile di incitamento al massacro.
All’invasione del proprio paese, il governo ucraino risponde infatti facendosi garante di una guerra per procura a nome del “mondo libero” contro il dittatore psicotico che minaccia non solo l’Ucraina, ma l’economia e il benessere di tutto l’occidente, senza apparentemente calcolare i costi in termini di vite umane e di rischio per il suo popolo e per l’intero pianeta.
In questa polarizzazione viene compresso anche il movimento pacifista, che si divide sull’invio di armi alla resistenza ucraina: da una parte esponenti storici come Luigi Manconi parlano di resistenza armata etica richiamandosi a Fenoglio e ai partigiani italiani, dall’altra l’ANPI che di quei partigiani dovrebbe mantenere vivo il pensiero e l’eredità considera un errore l’invio di armi, destinato ad aumentare lo spargimento di sangue senza avere reali speranze di incidere sul piano militare – a meno di escalation che prevedano l’ingresso diretto di altri paesi nel conflitto, ma a quel punto staremmo parlando di guerra mondiale vera e propria, che ovviamente non si augura nessuno.
E come spesso accade, in un simile contesto chi rifiuta la soluzione armata viene rapidamente classificato in una scala che va da animebelle a filoputiniani, nella logica di scontro frontale connaturata all’essenza stessa della guerra, e capita di ascoltare la richiesta di appoggio militare anche da palchi addobbati con bandiere arcobaleno e stendardi pacifisti.
Una soluzione – quella dell’invio di armi – che oltre a generare una guerra per procura dalla durata imprevedibile e allontanare ulteriormente l’Europa dalla lista dei possibili mediatori, sembra anche fortemente condivisa da tutta la narrazione costruita per noi, pubblico di angosciati spettatori, intorno a pochi concetti chiave: patria, sangue e morte.
Una narrazione lontana da quella delle donne ucraine che alla vista di un prigioniero russo hanno pensato che la cosa più giusta da fare fosse dargli un cellulare per chiamare la madre a casa, a riprova che l’umanità non ha bisogno di eroi. E lontana anche dal coraggio e dall’umanità di chi protesta contro la guerra nelle strade di Mosca e San Pietroburgo, un fronte del conflitto che a differenza degli altri la censura putiniana e il contemporaneo ritiro dei media occidentali rende ancora più invisibile, proprio mentre del sostegno e dell’aiuto di tutto il mondo avrebbe un immenso bisogno.
Chi crede nella pace dovrebbe piuttosto farsi amplificatore di quelle energie e convincersi che il nostro unico dovere debba essere quello di concentrarci sulle conseguenze delle nostre azioni, come sottolinea Los Alamos Study Group, una delle principali organizzazioni mondiali per il disarmo nucleare: imperativo è fare il possibile per cercare la pacificazione dell’Ucraina e non infiammare o allargare ulteriormente il conflitto in corso. Le nostre parole possono uccidere o curare.
Ricordiamocelo sempre, ogni volta che scendiamo a manifestare contro ogni guerra. O altrimenti, smettiamola di parlare di pace.
Testo: Carlo Miccio
Foto: Marcello Scopelliti