Crocevia

Fermo l’auto, trovo posto tra un furgone coi vetri rigati e una vecchia Yaris.
Apro lo sportello e mi fa gli onori di casa un profumo di kebab misto ad hashish, mi fa riflettere su quanto mi sia familiare, anzi mi accorgo che lo do per scontato, indice di quanto questo luogo mi sia penetrato fin dentro le ossa.
Ho parcheggiato proprio sotto un vecchio lampione dell’era fascista, quelli appesi a un filo che attraversa la strada e che emettono quella luce gialla rendendo l’aria umida di Gennaio ancora più densa.

A quest’ora pochi sguardi si incrociano, e sono sfuggenti, raccontano di paura, insicurezza ma esprimono sfida e durezza.
Sui muri alcuni segni Raccontano storie. Quelli degli uomini, ormai sbiaditi e incomprensibili, dicono che è molto tempo che nessuno più grida qualcosa su questi muri, invece è proprio lui, il tempo che, scavando l’intonaco, continua inesorabile a raccontare la sua verità .
Con la chiave nella toppa del portone, incrocio lo sguardo giudicante del mio riflesso sul vetro, ma non ho il coraggio di dirgli niente e apro. Me lo lascio alle spalle, che mi fissa immobile mentre salgo le scale.
Primo piano, da sotto la porta dello studio di progettazione navale, filtrano luce e parolacce, dalla porta accanto odori di cibo esotico, muffa e nicotina.
Le scale mi parlano di bellezza, come quella di mia nonna, uno sguardo vispo da ragazza che smentiva quello che il tempo aveva scritto sul suo viso. Prima ancora di arrivare sul pianerottolo del secondo piano, mi aggredisce il profumo dolciastro del mio vicino di casa, o vicini, non ho ancora capito quanti sono li dentro, per fortuna il loro silenzio è altrettanto intenso.

Quattro mandate, a volte a raffica, a volte no, dipende dell’umore della serratura, stasera è buono, e in un attimo mi trovo a tu per tu con Ulisse, che seduto sul tappeto del corridoio ammucchiato dalla sua gioventù, mi fa un cazziatone per averlo lasciato da solo per tutto il giorno. Mentre mi tolgo le scarpe, mi passa vicino rasentando il pavimento per sfuggire alle mie carezze e se ne esce sulle scale, salendo al piano di sopra a guardare il catenaccio della porta che dà sul terrazzo in attesa che vada ad aprirgliela.
Mi godo quel momento di felicità, quell’attimo in cui hai finito di lavorare, sei arrivato a casa e ancora non hai iniziato a fare niente, un limbo estatico dove sei solo respiro. Lei ancora non è rientrata, stasera tocca a me cucinare.
La preparazione della frittata è disturbata dal vociare di due persone che spingendosi a vicenda si abbaiano qualcosa in una lingua tanto bella quanto spigolosa. Ai quattro angoli del crocevia, alcuni curiosi si godono lo spettacolo tenendo per mano la loro birra .
È interessante questo incrocio, lo è a più livelli, strade diverse che si incontrano, persone diverse che fanno lo stesso, culture che si scontrano, si influenzano, si arricchiscono… molto interessante. Si, ma solo visto da qui, da dietro una finestra al secondo piano. Dall’alto è tutto bello, non si vedono i particolari, non si sentono gli odori, il rumore dei pugni, il calore del sangue sulle nocche, il tintinnio dei cocci di vetro, le pupille dilatate di chi sa che essere sopravvissuto al mare non garantisce niente.
Qui in questo incrocio ci si gioca la vita per uno sguardo ad una donna, un pezzo di fumo non pagato, o per i mostri che a volte neanche l’alcool riesce a tenere a bada. Questo incrocio di lingue, di culture, di gente, di vite, di persone.
Questo è il senso, l’opportunità, chi lo vede dall’alto, chi lo osserva da vicino, chi lo subisce in prima persona.
Questo crocevia di anime.

Testo: Paolo Ambrosini
Foto: Marcello Scopelliti

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