Queste foto sono state scattate a Belfast l’11 luglio del 2004, in occasione della “notte dei fuochi” che precede la tradizionale parata orangista che si tiene ogni anno il 12 Luglio.
Nel corso della “notte dei fuochi”, nei quartieri unionisti si alzano torri di pallet su cui viene issata la bandiera della Repubblica Irlandese: a quel punto la torre è pronta per essere incendiata e diventare rogo che nell’oscurità segna la demarcazione identitaria tra co-abitanti della stessa città.
Niente sembra esprimere meglio di quanto faccia la parata lo spirito conflittuale di questo luogo, una città che sulla contrapposizione etnica sembra aver fondato la sua più intima identità: un rito che si ripete ogni anno e che a Belfast sembra svolgere la stessa funzione simbolica che le processioni patronali svolgono nei paesi del nostro meridione.
In un certo senso, Belfast rappresenta alla perfezione quell’esclusivismo etnico che Alexander Langer definiva come una delle due possibili opzioni – quella sbagliata, per l’esattezza – nei luoghi di compresenza etnica di comunità separate a causa di diversità linguistiche, politiche e/o religiose.
Belfast diventa dunque la perfetta dimostrazione di “cosa non va fatto”, e di come la storia sembra continuare a ripetersi compulsivamente nonostante i suoi stessi avanzamenti.
Gli accordi del Good Friday del 1998 hanno di fatto aperto una nuova fase e nuove prospettive, ma la presenza persistente di rituali come quello della notte dei fuochi testimonia quanto la logica conciliatrice di quegli accordi sia ancora lontana dalla pratica quotidiana, e che l’affezione ai “messaggi di odio” persista nella mentalità collettiva e in essa sia radicata. Un’affezione che neanche altri sviluppi recenti, come la Brexit e il Covid, sembra aver intaccato, così che anche quest’anno, nonostante la proibizione d’assembramento per motivi sanitari, almeno una dozzina di roghi hanno brillato nella notte di Belfast l’11 Luglio.
E, a onor del vero, quel senso di passiva assuefazione era già respirabile quell’11 luglio di sedici anni fa, quando queste foto furono scattate. Tra gli aspetti più disorientanti di quella giornata di scontri urbani c’era infatti la presenza – su entrambi i fronti dello schieramento – di un gran numero di persone che agli scontri partecipavano da spettatori: famiglie che avanzavano con borse e buste contenenti birre e cibo in abbondanza, e che puntavano soprattutto ad ammirare fuochi, barricate e sassaiole in un’atmosfera da scampagnata che rendeva ancor più la parata un simulacro di militarismo – nella sua ridicola teatralità – e allo stesso tempo la riduceva alla stregua di una partita di cricket o di rugby nel parco, da godersi stesi sull’erba in compagnia di altri appassionati spettatori.
Ed è proprio nella percezione di quel senso di assuefazione, di normalizzazione del conflitto, di accettazione della non convivenza che probabilmente risiede la radice più marcia e violenta della parata: il suo essere spettacolo e intrattenimento.
Accanto all’identità e ai confini più o meno netti delle diverse aggregazioni etniche è di fondamentale rilevanza che qualcuno – da Belfast a Gaza, da Lesbo a Prishtina fino a Nogales – si dedichi all’esplorazione e al superamento dei confini: attività che magari in situazioni di tensione e conflitto assomiglierà al contrabbando, ma è decisiva per ammorbidire le rigidità, relativizzare le frontiere, favorire l’inter-azione. Proprio come, per tutta la vita, ha fatto Alexander Langer.
Foto Marcello Scopelliti