Appunti su una rivolta parigina

  • Categoria dell'articolo:Fuorigioco

Se è vero che Parigi, dalla Bastiglia nel 1789 alla Comune del 1870, è città rivoluzionaria per antonomasia che incarna la capacità di cambiare verso alla storia, quanto avvenuto allo stadio Parco dei Principi lo scorso otto dicembre ha il sapore di una svolta importante, addirittura forse storica – come la definisce Nicola Sbetti, sociologo che da anni studia e osserva l’impatto che il calcio ha sulla realtà sociopolitica del pianeta intero.

Due sere fa in quello stadio parigino, i giocatori della squadra di casa del Paris Saint Germain e quelli del Basaksehir di Instanbul hanno di comune accordo deciso d’interrompere la partita – Champions League, e cioè la più vasta platea televisiva del pianeta – per protestare contro un componente del team arbitrale che ha usato il termine negru per riferirsi all’assistente tecnico camerunense della squadra turca.

Per la prima volta nella storia, a decretare l’interruzione del match per abusi razziali, sono stati gli stessi giocatori in campo, con entrambe le squadre schierate compatte nella protesta e capaci di compiere quel gesto che raramente arbitri e federazioni hanno il coraggio di fare: staccare la spina dello spettacolo e spegnere tutte le luci.

C’è da dire che la Uefa ha accolto rapidamente la protesta, consentendo la ripetizione dell’incontro il giorno dopo e accogliendo in sostanza la protesta dei giocatori, che in occasioni simili rischiano la squalifica – e anzi spesso la subiscono. Come è successo a Omar Daffe, portiere senegalese dell’Agazzanese (un team di dilettanti emiliano) che dopo aver abbandonato il campo stanco di ululati razzisti è stato squalificato con penalizzazione per tutta la squadra che l’aveva sostenuto nella sua protesta. O anche all’arbitro di Latina Claudio Gavillucci, l’unico che abbia mai sospeso una partita di serie A per cori razzisti – e che infatti da quel giorno la serie A la vede solo in televisione.

Questa volta invece la protesta è stata compatta e unanime da parte di giocatori, società e federazione. Sembrerebbe a tutti gli effetti una vittoria storica, capace di imprimere una svolta netta nell’atteggiamento che lo sport (il medium?) più popolare al mondo da sempre dimostra verso la questione razzismo. Un finale incredibilmente simile a quello a cui ci hanno abituato i film di Hollywood, un classico trionfo del bene sul male con immediata illuminazione collettiva che coinvolge buoni e cattivi, e un potere di redenzione capace di trasbordare ovunque e far sentire migliori anche i telespettatori.

E invece le ombre, come sempre nella realtà, rischiano di oscurare gli evidenti e indiscutibili aspetti positivi dell’evento, per ragioni di natura tecnica, politica e linguistica.

Per prima cosa, nonostante il rango della competizione, la partita non aveva una vera e propria posta in palio e, soprattutto, sugli spalti non c’erano spettatori per via delle regolamentazioni covid. Cosa sarebbe successo se la partita avesse significato punti importanti, qualificazione al turno successivo, e quindi soldi per le società coinvolte? E se a commettere abusi verbali fosse stata una curva di tifosi – cioè le persone di cui quei calciatori sono i beniamini – i giocatori avrebbero reagito nella stessa maniera? D’altronde, non è proprio la pressione del gruppo la molla scatenante di tanti atteggiamenti – e aggressioni – di stampo razzista? E non è proprio su quello – l’essere gruppo che si scontra con opposte fazioni – che si basa anche la natura stessa della partecipazione di molti tifosi allo stadio? E lo stadio, senza la socialità e l’aggregazione dei tifosi , è un qualcosa di reale o non diventa piuttosto replica e simulacro di un set hollywoodiano? Sarebbe stato possibile quel gesto senza la presenza di un pubblico esclusivamente televisivo? E, in ogni caso, il gesto dei giocatori – anche se nato in un ambiente asettico e artificioso come uno stadio da 50mila posti tutti vuoti – ha forse meno valenza, date le dimensioni interplanetarie della diretta televisiva e la riproduzione del gesto favorita dall’imperante e onnipresente dimensione social?

Sono tutte domande che, alla prova dei fatti, non possono avere una risposta certa in nessuno dei casi, finché non vedremo quel gesto ripetersi in uno stadio pieno. Tranne l’ultima, forse.

Un altro dubbio, di natura invece più strettamente linguistica, è costituito dal fatto che l’imputato – il quarto uomo dello staff arbitrale – è di nazionalità rumena e si stava rivolgendo ad un collega suo connazionale. A sua discolpa, lui stesso afferma che la parola negru in romeno significa semplicemente nero, e non negro nel senso dell’americano nigger. L’accusa ribadisce che comunque additare una persona (tipul acesta negru, cioè vale a dire quel tipo nero la frase incriminata pronunciata dall’arbitro rumeno) sulla base del colore della pelle sia un gesto di per se sostanzialmente razzista, diverso dal dire il tipo biondo o quello calvo. D’altro canto, gli arbitri sono abituati a riferirsi ai giocatori in campo sulla base del numero di maglia – fallo del 5, fuorigioco del 9, e così via – e in quel caso si trattava di una persona dello staff tecnico, vestita con la stessa tuta sociale indossata da tutte le altre persone accanto a lui, e distinguibile nel gruppo allo sguardo di uno sconosciuto solo per la differenza della sua pelle.

Se da una parte la questione del linguaggio corretto (chi scrive odia l’uso dello svilente avverbio politicamente e crede che il linguaggio sia la prima forma di potere nelle relazioni collettive e interpersonali, per cui sarebbe anche auspicabile imparare a gestirlo meglio sia a livello individuale che sociale) si afferma finalmente come degna di attenzione da parte delle autorità calcistiche e dagli stessi protagonisti del gioco, da un’altra si registra però una crescente insofferenza nei riguardi di un orientamento prevalentemente anglofono nel valutare cosa significhi parlare correttamente. Questione sollevata in questi giorni dal caso di un altro illustre calciatore, ex Napoli e PSG e attualmente al Manchester Utd, l’uruguayano Edinson Cavani che, nel ringraziare un appassionato tifoso di colore e suo connazionale, ha twittato un’infelice – almeno secondo il giudizio di media e federazioni britanniche – Gracias negrito. Usando cioè una formula tradizionale nella sua lingua che in Uruguay è considerata tutt’altro che offensiva – così come in altri posti del continente sudamericano, come testimoniano i romanzi di Borges, Garcia Marquez e Osvaldo Soriano. Per quel Gracias negrito oggi Cavani rischia tre giornate di sospensione ed è da settimane al centro d’infinite polemiche e attacchi social. Dopo l’arbitro romeno, anche il calciatore ispanico viene valutato nell’utilizzo della propria madrelingua secondo un metro di giudizio che appartiene sostanzialmente alla natura specifica, e ancor più alla cultura, della lingua inglese, dove il termine black non ha possibilità di esser equivocato con nigger, a differenza di nero, nigru o negro. E in molti, anche convinti sostenitori di una battaglia per un linguaggio più democratico ed inclusivo, iniziano a domandarsi se questa normativizzazione di stampo anglosassone non si stia rivelando piuttosto molto escludente, allontanando non solo i razzisti e gli omofobi ma sostanzialmente anche tutti quelli che per nascita e cultura non si riconoscono in uno standard anglosassone.

Ma l’estremo del paradosso si raggiunge forse osservando le implicazioni politiche che quel nobile gesto allo stadio Parco dei Principi ha avuto in tutto il mondo, dal momento che in campo non c’erano due squadre comuni, ma bensì proprio il Paris Saint Germain e il Basaksehir Instanbul.
Per quanto riguarda la squadra di casa, il PSG, la sua proprietà non appartiene ad uno dei tanti paperoni della finanza internazionale che investono e riciclano soldi nel “gioco più bello del mondo”, ma bensì al Qatar Investment Authority, un fondo sovrano dello stato che gestisce il surplus di capitali generato dall’estrazione del petrolio investendo in assets all’estero (dalla VolksWagen al Credit Suisse e ai Virgin megastore, tra i tanti). La squadra parigina, nata nel 1970 e di proprietà per i primi suoi tre anni di vita di un azionariato popolare composto da ventimila tifosi, appartiene quindi al 100% da ormai dieci anni al governo stesso del Qatar, emanazione di uno stato non propriamente al vertice nella difesa dei diritti civili di qualsivoglia minoranza. E non di meno, non possiamo fare a meno di domandarci che effetto avrà avuto quel gesto sui tanti telespettatori qatarioti – anche bambini – che ormai sono votati al tifo della squadra parigina e non si perdono una partita sui loro megatelevisori LCD? La partita di due sere fa, per loro, sarà rimasto uno spettacolo hollywoodiano – con il loro eroe M’Bappé che lascia il campo offeso nella sua negritudine (come l’avrebbe definita Leopold Senghor, poeta africano come i genitori del centravanti del PSG) – o avrà invece scavato più a fondo nelle consapevolezze individuali, arrivando a far intuir loro quanto valore e potere possano avere le parole, e quanta responsabilità richieda il loro utilizzo?
Ma il top del tristissimo paradosso lo ha toccato sicuramente Erdogan, primo sponsor del Basaksehir, una squadra nata solo pochi anni fa per volere dello stesso premier e che ha da subito sbaragliato – e distrutto – la ricca scena agonistica del calcio turco, incentrata su una rivalità a tre tra le squadre storiche di Istanbul – Besiktas, Fenerbahe e Galatasaray, in rigoroso ordine alfabetico. Una rivalità profondamente radicata negli strati più popolari della cittadinanza, con tifoserie che hanno rappresentato la più vivace e decisa riserva di militanti nelle proteste di piazza Taksim e Gezi Park di qualche anno fa proprio contro il regime di Erdogan, e da lui represse duramente nel sangue e nel carcere. Il progetto Basaksehir è parte integrante di quella repressione: una squadra di calcio trasformata in un’arma di regime e passata in sei anni dalla serie B allo scudetto e alla Champions League, con una mission politica di taglio decisamente nazionalista (molti giocatori festeggiano il gol con il saluto militare, in deferenza a Erdogan, come in Italia abbiamo visto fare al centrocampista della Roma Cengiz Ünder in sostegno alla recente invasione turca del Kurdistan) e attraverso la quale il premier turco mira a disinnescare le sacche di malcontento popolare che si aggregano intorno alle tifoserie tradizionali.

Adesso, succede che in occasione del bellissimo gesto al Parco dei Principi, proprio Erdogan si affretti a twittare una roba tipo “I nostri rappresentanti condannano le parole razziste contro Pierre Webo dello staff del Basaksehir e credo che la UEFA debba prendere i giusti provvedimenti. Siamo incondizionatamente contrari al razzismo e alla discriminazione nello sport e in tutti i settori della vita. #Notoracism”. Parole che fanno decisamente molto Hollywood, da una parte, ricompattando tutta la platea su valori positivi. Ma dall’altra, anche e soprattutto, gli consente di accreditarsi ancora di più agli occhi del continente africano come un nuovo leader capace, dopo Gheddafi, di rappresentare idealmente il volto forte del terzomondismo anti-occidentale: un disegno che il leader turco persegue da tempo – non a caso è lui l’alleato più forte del Colonello Haftar, leader della Cirenaica in rivolta contro il governo centrale libico, e sempre più forte è la sua ingerenza in zone calde come il Corno d’Africa.

E, per rendere tutto sottilmente più perverso, l’accordo è scattato – di certo senza alcuna volontà dei calciatori in campo – proprio tra la squadra di Erdogan e quella dei suoi migliori alleati politici nello scacchiere mediorientale: il Qatar, che organizzerà i prossimi mondiali di calcio nel 2022. Un evento che ogni vero tifoso di calcio dovrebbe boicottare senza esitazioni, alla luce degli scandali nell’assegnazione e in cui un ruolo centrale lo riveste proprio un francese che, di concerto all’allora presidente Sarkozy, appena poche settimane prima aveva mediato l’acquisto del PSG da parte del Qatar Investment Authority. Un francese di nome Michel Platini, a quell’epoca presidente della UEFA e che per anni una certa retorica tutta italiana ha dipinto come la faccia buona, intelligente e onesta del calcio, da contrapporre a quel mariuolo, tossico e puttaniere di Maradona.
Ma questa è un’altra storia ancora, e quello che conta oggi, alla fine di tutto, è una sola domanda. Il gesto dei calciatori al Parco dei Principi, e soprattutto la compattezza con cui sono stati subito appoggiati da tutte le autorità ufficiali, resteranno un gesto isolato o rappresentano una svolta vera, una rivoluzione parigina destinata a cambiare per sempre l’atteggiamento istituzionale dei signori del calcio spettacolo, trasformando i vuoti slogan delle campagne mediatiche in gesti concreti da adottare negli stadi di tutto il mondo?

La risposta da auspicarsi è ovviamente sì, nella speranza che la svolta però resista anche al ritorno dei tifosi negli stadi, l’unico elemento capace di rendere reale quello spettacolo vuoto che è il calcio televisivo a porte chiuse – comunque male minore e inevitabile in tempi di pandemia. Di certo però da oggi, fi-nal-men-te, anche i calciatori possono e devono ritenersi responsabili – e non solo vittime – del razzismo sui campi da calcio. E da lì, per osmosi, possono esportare questa responsabilità nel resto del mondo, strappando i loro tifosi al ruolo di spettatori e rendendoli consapevoli che il cambiamento riguarda e coinvolge ciascuno di noi. E, in primo luogo, il cambiamento delle parole che scegliamo per comunicare. In campo e fuori, sugli spalti e nella vita.

PS: la partita, disputatasi il giorno dopo, è terminata 5-1 per il PSG.

Carlo Miccio

Foto: giocatori della nazionale turca manifestano sostegno a Erdogan durante l’invasione del Kurdistan
Foto credits: www.ilovepalermocalcio.it

Lascia un commento