Le chiavi di casa

In molte famiglie palestinesi si conserva un mazzo di chiavi che viene trasmesso da generazione in generazione: un’usanza che risale al 1948, e precisamente al periodo della Nakba. Con questo termine, che si può tradurre in catastrofe, s’intende l’esodo forzato di circa settecentomila palestinesi dalle loro abitazioni in seguito alla costituzione dello Stato d’Israele e della prima guerra arabo-israeliana che ne scaturì immediatamente. Le chiavi che a tutt’oggi vengono trasmesse da padre in figlio sono per l’appunto quelle delle perdute abitazioni, nelle quali a fine guerra venne impedito il ritorno ai profughi, come prescritto dalle risoluzioni ONU. La Nakba non durò un giorno, ma si scelse di celebrarne la ricorrenza – in quella prospettiva di contrapposizione eterna che ancora regna nei territori più o meno occupati della Palestina – il 15 maggio, la stessa data della proclamazione d’indipendenza dello stato d’Israele.

Le persone a cui venne impedito il ritorno a casa erano a tutti gli effetti profughi, cioè civili che avevano abbandonato le loro proprietà per sfuggire alla guerra in corso e che finirono nei numerosi campi profughi delle nazioni confinanti, in primis la Giordania. Vittime dirette delle conseguenze di quello che era stato un accordo post coloniale tra le potenze occupanti (Francia e Inghilterra) e il neonato Stato d’Israele, i palestinesi della Nakba rappresentano forse meglio di chiunque altro il prototipo di popolo disconosciuto nel suo diritto all’esistenza dalla comunità internazionale.

Uno degli episodi più drammatici della Nakba avvenne a Lidda, una città araba assegnata ai palestinesi nel Piano di Partizione del 1947, conquistata dall’esercito israeliano nel corso del primo conflitto che procedette all’esecuzione di circa duecento civili. Ai sopravvissuti, il giorno dopo venne ordinato di raccogliere quanto possibile e abbandonare a piedi la città circondata dal deserto, per raggiungere le postazioni arabe a diversi chilometri di distanza: una marcia durante la quale morirono altri civili ancora, come testimoniato anche da storici israeliani.

Se oggi cercate Lidda sulla mappa non la troverete: al suo posto c’è una cittadina israeliana di nome Lod, che da qualche giorno ricorre nelle cronache televisive perché bersagliata dai razzi di Hamas, in una riproposizione senza fine del conflitto originario. Una città dove nell’ultima settimana è divampato un odio etnico inusitato anche per queste latitudini, e che secondo alcuni osservatori nasce ancora una volta dalle case abbandonate della Nakba.

Da una situazione simile, l’espulsione di residenti palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme in accordo a una legislazione che discrimina ancora una volta i profughi dei precedenti conflitti arabo-israeliani, nascono d’altronde anche gli scontri di questi giorni, in un eterno perpetuarsi di violenze sempre simili.

E sono proprio gli scontri attuali che rendono oggi, Giornata della Nakba, una ricorrenza particolarmente importante. Il diritto alle chiavi di casa, e ancor più a sentirsi sicuri a casa propria, restituisce una dimensione tragicamente pratica e reale a quella che i media occidentali ci dipingono da sempre come una disputa irrisolvibile, destinata ad irrompere a scadenze regolari nei nostri telegiornali come se fosse endemicamente legata alla natura di quei popoli, invece che al sistematico rifiuto di adempiere alle risoluzioni dell’Assemblea delle Nazioni Unite. Come avviene dalla risoluzione 194 dell’11 dicembre del 1948, sistematicamente ignorata da 73 anni e che prevedeva il ritorno nelle loro case dei profughi della Nakba.

Testo: Carlo Miccio
Foto: Arabpress.eu, Haaretz.com, Al Jazeera.com

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