Scontri a impatto zero in tempi di sindemia

Nella scorsa settimana ha fatto molto discutere (qui e qui per esempio) la decisione di alcune nazionali di calcio (Norvegia, Germania e Danimarca) d’indossare una maglia di protesta prima della partita su cui campeggiava la scritta Human Rights. Una generica protesta in difesa dei diritti umani che però, essendo gare valide per la qualificazione ai prossimi mondiali previsti in Qatar nel 2022, sembrava indirizzata proprio al paese ospitante, che oltre a non essere mai stato un paladino nella difesa di quei valori sembra al momento impegnato in una gigantesca gara di sfruttamento dei diritti dei lavoratori – per lo più immigrati – utilizzati nella costruzione delle strutture necessarie allo svolgimento degli stessi mondiali.

Ci si può domandare quanto senso abbia una protesta indirizzata contro qualcuno che non si può neanche nominare: la genericità del messaggio è stata infatti imposta dalla necessità di evitare le automatiche penalizzazioni da parte della FIFA, la onnipotente federazione che sovraintende ai destini del calcio internazionale e che proibisce in maniera categorica ogni riferimento a temi politici. La politica non può e non deve inquinare lo sport è il mantra generalizzato che si ripete attraverso ogni tipo di media, come a voler infilare lo sport in una bolla completamente scollegata dal resto del mondo. Un ideale di sport spettacolo, 100% televisivo, e che non tiene evidentemente conto delle tante palestre e strutture dove si allenano ragazz* di ogni età e che dipendono da fondi emanati, per l’appunto, da organismi politici a livello più o meno locale.

Lo sport è bello e pulito e va difeso dalla politica che è per sua stessa natura sporca: questa sembra essere il messaggio più forte delle direttive FIFA. Piuttosto che considerare la politica come la nobile e indispensabile arte di arrangiare la convivenza sociale, essa viene invece relegata al rango di cosa sporca e cattiva. E a quel punto il gioco è fatto, e non riguarda più solo gli sportivi – praticanti e spettatori – ma l’intera comunità sociale.
Per cui quella che è andata in onda su diversi canali televisivi internazionali prima delle partite è stata a detta di molti una sorte di simulacro di protesta, come l’avrebbe definita Jean Baudrillard sostenendo che la televisione abbia ucciso la realtà. In quel nobile gesto ripreso dalle telecamere nel pre-partita si intravede tutta l’ansia dei protagonisti di sistemare la propria coscienza social senza incidere in alcun modo sulla realtà che viene contestata. Anche perché incidere sulla realtà implicherebbe uscire dal livello della rappresentazione (= la protesta mediatica) ed entrare nel regno dell’azione. E l’unica azione possibile, a questo punto, diventerebbe il boicottaggio dei mondiali, cosa che nessuno sembra volere.

Addirittura, secondo la federcalcio svizzera, “neanche Amnesty è a favore del boicottaggio, ed è anzi impegnata al nostro fianco in una campagna attiva per il rispetto dei diritti umani e il miglioramento dei diritti dei lavoratori, sfruttando così al massimo la nostra influenza. Siamo convinti che il calcio sia un potente strumento per promuovere valori fondamentali come la tolleranza, il rispetto o l’uguaglianza. Ma sempre usando il dialogo e non coi mezzi del boicottaggio, che secondo noi è meno efficace.»

Una risposta palliativa, insomma, tutta tesa ad abbassare il livello dello scontro in nome del nobile valore del dialogo: esattamente la risposta che ci si può attendere da una società palliativa, come il filosofo Byung-Chul Han definisce quella attuale. Una società dove, in nome del pensiero positivo, l’attenzione del legislatore è tutta puntata verso l’attenuazione dei malesseri sociali piuttosto che nella risoluzione dei problemi che ne sono la causa ultima. Curare i sintomi, e non la malattia, si direbbe in termini medici.

Nel tentativo di creare una società senza dolore e senza contrasti si arriva a negare spazio anche al rispetto dei diritti umani: tanto più in tempi pandemici dove l’essere tutti uniti tende a diventare imperativo categorico assoluto, da perseguire sempre e a tutti i costi. Ed ecco quindi il bisogno di proteste educate, non minacciose, come quelle messa in atto dalle indignate nazionali di Norvegia, Germania e Danimarca. Che per alcuni rappresentano addirittura un capolavoro di comunicazione positiva, propositiva e non violenta, senza rendersi conto che citando quel termine finiscono per espropriare l’esperienza gandhiana del suo valore più alto: il momento dello scontro. Una nonviolenza palliativa, insomma, che finisce per svilire l’acclarata efficacia rivoluzionaria del metodo usato dal Mahatma.

La società palliativa descritta da Byung-Chul Han diventa ancora più totalizzante in tempi di pandemia, quando il bisogno di evitare scontri conduce a governi così allargati da essere privi di senso e di identità politica, oltre che di opposizioni, e che davanti all’emergenza sanitaria allontanano e anestetizzano ogni altra questione – dallo ius soli alle riforme fiscali – come si conviene ad una società dove il consumo di antidolorifici e ansiolitici ha raggiunto proporzioni decisamente mainstream. E in una prospettiva come questa, chi se la sente di rinunciare ai mondiali di calcio in cambio del rispetto dei diritti dei lavoratori, delle donne o degli omosessuali in Qatar? Non ci vengono forse chieste già molte, troppe rinunce di questi tempi? Non siamo forse già abbastanza vittime anche noi?
La società senza dolore punta alla sopravvivenza e rinuncia allo scontro – di qualsiasi tipo esso sia – in nome di quella che definisce convivenza civile, e che (apparentemente) si basa anche sul diritto alla felicità di tante famiglie nel godersi le partite tutti insieme davanti alla televisione. E, in una società che mira all’ottundimento di ogni tipo di sofferenza, tutto ciò che non rientra nel dominio della Felicità finisce automaticamente in quello del Dolore. Tanto più nell’era Covid, quando è ormai chiaro che siamo davanti a – come scrive Luca Negrogno in questo raccontoun virus che fa più danni in base alla condizione socioeconomica, infatti l’hanno chiamata sindemia, su Lancet, condizione di malattia determinata dalla concomitanza di fattori patogeni per esempio virali e condizioni preesistenti, sociali, economiche, relative all’organizzazione dei sistemi sanitari, ecc.

Come si fa a lasciar spazio allo scontro sociale, in queste condizioni? Chi ha voglia di litigare su un terreno sacro come i mondiali di calcio quando la priorità dovrebbe essere l’organizzazione dei sistemi sanitari? Il rischio di venir classificati nemici dell’umanità diventa a quel punto oggettivamente alto. Molto più comodo rimandare al futuro la solita domanda – “Ma come abbiamo potuto permettere tutto questo?” – che ancora oggi ci facciamo a proposito dei mondiali argentini del 1978, giocati sulla pelle di migliaia di desaparecidos torturati ed uccisi dal regime di Videla ed assegnati dopo una finale diretta da un arbitro italiano sotto lo sguardo vigile e puntuale del Venerabile maestro Licio Gelli, seduto in tribuna d’onore proprio accanto agli sgherri di regime – una vicenda raccontata alla perfezione da Luca Pisapia nel suo splendido libro su tutto il marcio del calcio intitolato Uccidi Paul Breitner, ma che potete sinteticamente scoprire anche solo clikkando qui.

Sembrerebbe un’impasse irrisolvibile, da cui ci tira fuori solo il linguaggio essenziale e minimalista dello stesso Byung-Chul Han, con una maestria linguistica che in omaggio alle regole zen elimina le parole inutili e va dritta alla sostanza del problema, utilizzando una singola frase. La preoccupazione per la buona vita va contrapposta alla lotta per la sopravvivenza.

Che tradotto in soldoni significa che c’è un limite a quanto si può sopportare semplicemente per rimanere vivi. E che nel continuare a ipotizzare una società migliore risiede comunque l’unica via d’uscita alle ingiustizie di un presente che ci viene dipinto come ineluttabile. Vale per gli individui, le nazioni e le società, ma anche per le nazionali di calcio e i loro tifosi.

In tempi di sindemia, quando tutti dipendiamo ancora di più dalla sensibilità e dalla solidarietà degli altri, diventa ancora più importante dimostrare a nostra volta solidarietà e sostegno ai dannat* della terra, tra cui il Guardian inserisce i 6500 lavoratori migranti morti dall’assegnazione del mondiale all’Emirato del Qatar. Assegnazione che, preme ricordarlo, è al momento oggetto di un’inchiesta giudiziaria che oltre al funzionario FIFA Michel Platini coinvolge l’ex presidente della repubblica francese Sarkozy – alla faccia della politica che deve rimanere fuori dallo sport.

E alla luce di tutto ciò, non bisogna essere filosofi per capire che boicottare i Mondiali in Qatar è l’unica scelta sana, per chi sano vuole continuare a considerarsi. Spettatori compresi.

Testo: Carlo Miccio
Immagini: tratte dal web. L’ultima, con citazione di parole del venerabile S.N. Goenka, è tratta dalla serie Propaganda di Carlo Miccio, contenuta nel sito www.microcolica.it

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