Fenomenologia della Povertà

“Non avrei mai pensato, avendo vissuto in Paesi più disgraziati del nostro, di vedere file chilometriche per avere un pasto, a Milano. Fate presto.” Ho letto questa frase di Gino Strada qualche giorno dopo aver ricevuto da parte di un mio amico russo un video dove era ripresa proprio la fila di cui parla il fondatore di Emergency. Il mio amico mi chiedeva se l’Italia fosse sprofondata in questa situazione e se avessi problemi economici rendendosi disponibile, nel caso, di aiutarmi. Quel video, più delle parole di Gino Strada, mi è arrivato come un pugno nello stomaco. A ben vedere la pandemia ha colpito duramente in Italia, ancor più di altri Paesi europei, in quanto abbiamo assistito da molti anni a questa parte ad un revival dell’atteggiamento collettivo punitivo nei confronti dei poveri che sembrava ormai definitivamente tramontato con lo sviluppo dei moderni sistemi di welfare. Per secoli si è considerata la povertà come conseguenza dei valori e degli atteggiamenti dei poveri che si supponeva si generassero all’interno di una non meglio definita cultura della povertà. I primi tentativi di dare una spiegazione più strutturalista furono portati da Adam Smith e David Ricardo che iniziarono a mettere la povertà in relazione alla particolare conformazione della struttura sociale ed in particolare con il mercato del lavoro. Ma sarà soltanto con Karl Marx che la condizione di povertà di gran parte della popolazione dell’epoca verrà considerata una conseguenza del sistema di produzione capitalistico contribuendo a spogliare in parte la povertà di ogni connotazione negativa.

Sembrerebbe di essere di fronte ad una involuzione culturale, su questo argomento, di cui cominciamo a vedere, complice anche l’accelerazione prodotta dalla pandemia, le pesanti ricadute sociali ed economiche. Siamo in presenza di un ritorno all’idea della povertà come colpa individuale. Da questo arretramento culturale derivano alcune conseguenze nelle politiche sociali non solo in Italia ma in tutti quei Paesi dove la presenza di consistenti formazioni sovraniste ha esercitato una spinta involutiva nelle dinamiche sociali. In Italia assistiamo alla trasformazione della natura delle politiche della sicurezza sociale che sono gradualmente passate dall’essere strumenti di garanzia dei diritti di cittadinanza a condizioni di mantenimento dell’ordine pubblico. Da questa mutazione culturale derivano politiche di tipo repressivo che vedono il sistema giudiziario sempre più orientato a perseguire quella che il sociologo Ferrajoli chiama criminalità di sussistenza e non i crimini dei cosiddetti colletti bianchi. Da qui a definire la povertà una sorta di devianza il passo è breve. Si tende ad attribuire colpe individuali e collettive sempre più in base ad una determinata condizione o ad una specifica identità (Rom, migrante ecc) stravolgendo le più elementari basi del diritto penale e del principio di legalità.

Fa da contraltare a questo orientamento punitivo della povertà e della marginalità quello che Marvin Olansky definisce conservatorismo compassionevole una sorta di neopaternalismo caritatevole che tende a ridurre la questione della giustizia sociale, che dovrebbe avere una caratterizzazione fortemente politica ed etica, ad un approccio che appartiene alla morale privata. Noto queste caratteristiche in molti volontari di organizzazioni umanitarie che finiscono per mantenere un atteggiamento ben descritto da Marco Revelli : “Ripropongono- nel vuoto aperto dalla caduta, o quanto meno dall’affievolimento, di quella forma universalistica di riconoscimento che era stata la grande famiglia moderna dei diritti – nuove modalità del senso del o del noi. Nuove accezioni dell’essere in relazione, per certi versi rovesciate e opposte a quella: selettive, laddove i diritti erano universali. Personalizzate, mentre quelli erano astratti. Discrezionali e concesse – octroyées, come la costituzione dell’età della Restaurazione- in contrapposizione a ciò che era stato conquistato con la lotta, e affermato come prerogativa indisponibile”.

La cultura punitiva dei poveri e il conservatorismo compassionevole finiscono per produrre un orientamento sempre più diffuso a richiedere ai beneficiari delle misure di sostegno al reddito una prova di responsabilità, ad esempio nella gestione del denaro (vedi le norme sull’utilizzo del reddito di cittadinanza) e una disponibilità a intraprendere percorsi di uscita dalla povertà mediante l’accettazione di un lavoro di qualsiasi genere, senza per altro prevedere un cambiamento nelle condizioni strutturali che hanno portato alla maturazione di uno stato di bisogno. Questo atteggiamento produce la tendenza a subordinare il sostegno agli indigenti alla condotta degli aventi diritto, talvolta ammantata da buoni propositi come quelli di attenuare il carattere burocratico e impersonale degli interventi stessi.

Non sorprende, alla luce di quanto fin qui scritto, che ci sia una tendenza ad essere sopravanzati da spinte che vanno nella direzione di una sorta di immunizzazione, di una mancata identificazione dei poveri. Ha buona ragione Serge Paugam a segnalare come sembri prevalere una “logica egoistica che conduce la maggioranza della società a distaccarsi dai suoi segmenti ritenuti poco raccomandabili”. Non sono più i sentimenti, la compassione, la solidarietà, l’atteggiamento collettivo prevalente, ma la reificazione. Ai preesistenti legami sociali si sta velocemente sostituendo un vuoto sociale. A causa dello straordinario aumento delle disuguaglianze economiche, la distanza sociale tra i poveri e i super-ricchi asserragliati nei loro fortini inespugnabili diventa tale da non poter essere neanche tematizzata. Essa non è più soltanto incolmabile, diventa incommensurabile, esattamente come non era comparabile quella che opponeva il servo al padrone.

Roberto Pergameno

Foto: Marcello Scopelliti

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