La domanda delle domande: “Ma avrò capito bene?”

Quando parliamo di pratiche interculturali, di agire lo spazio liminale e imprevedibile dell’incontro con l’altro, accettiamo di accogliere una massiccia dose di incertezza e dubbio. La vertigine da accogliere è proprio quella sensazione di estensione dei confini delle proprie certezze più profonde. Quella sensazione di dubbio e imbarazzo e la familiarità con la domanda delle domande: “Ma avrò capito bene? Sarò stata capita?” Quali confini e quali impliciti e, ancora quali e quanto peso ai “non detti”? Come posso sentire e prender parte a un vissuto, anche se solo parzialmente, per dare valore e sgretolare la durezza delle ferite identitarie mie e dell’altro?

Abitiamo terre di nessuno dove avventurarsi, nuove forme di sorprese e aspettative, nuovi riti e ritmi, nuovi limiti, nuove narrazioni e procedure, nuovi comportamenti, nuovi stili cognitivi, nuove percezioni e concretezze, così come nuovi ostacoli, familiari e ignoti, nuove negoziazioni ed elaborazioni tra ciò che è riconosciuto e ciò che è straniero. Viviamo in un momento in cui le categorie di tempo e spazio subiscono contrazioni e accelerazioni vertiginose, in cui i nostri saperi comuni, quelli accudenti e rasserenanti, cominciano a dimostrare la loro vulnerabilità; la modernità ci mette davanti a cambiamenti evidenti e a un nuovo modo di pensare, la possibilità di “equipaggiarci” in questa realtà è essenzialmente legata a una pedagogia critica, a una scienza dell’educazione rinnovabile, co-costruibile, ripensabili.

Agire l’intercultura significa accedere a posizioni plurime nel rapporto con le narrazioni proposte, fare lo sforzo costante di accomodare significati alle azioni e alle parole, accedere a un pluriverso, evitare una narrazione unica e un punto di vista unitario, permettere versioni antitetiche, de-costruire le premesse delle singole persone e del gruppo al fine di far vivere ipotesi alternative e nuove mappe possibili. Del resto, il pensiero narrativo ci accomuna tutti, ci libera da quella colonizzazione della mente che Ng g Wa Thiong’o individua tra le cause di una riproduzione culturale escludente e segregante, generatrice di nuovi razzismi trasformativi. 

È attraverso le narrazioni che le esperienze acquisiscono senso per chi le fa e per gli altri, perché è attraverso il narrare che vengono costruiti gli archetipi che comunicano e raccontano costruzioni di senso e attribuzione di significati attorno agli eventi narrati; lo straordinario potere della conoscenza narrativa risiede infatti nei legami ricorsivi che si stabiliscono tra l’eccezionale e l’ordinario, nella tessitura delle interpretazioni e nell’intreccio tra poetico e cronologico, magico e quotidiano.

Narrazione quindi, come ponte (anche solo un ponte tibetano, semplice) per l’interculturalità: il raccontare-raccontarsi è sempre una forma d’arte, una vertigine metaforica che permette all’ascoltatore di compiere un movimento di avvicinamento verso chi racconta e anche verso se stesso, e lo aiuta a essere più partecipe sia alle proprie emozioni, sia alle visioni condivise.

L’universalità della narrazione è preziosa per chi opera nell’educazione interculturale perché valorizza in maniera “naturale” una forma di pensiero olistica, accogliente, integrante, dialogica, flessibile, morbida, vicina, accessibile. L’idea che l’architrave dell’intreccio narrativo sia proprio questa peculiarità umana di “incontrarsi” è già nelle corde della filosofia del linguaggio di Michail Michajlovič Bachtin: una filosofia della dialogicità, in cui la parola non è mai monologica, è sempre dialogica, “altrui”, conserva le tracce dell’altro che l’ha già usata prima e dell’altro a cui si rivolge. 

Il raccontare-raccontarsi è universale: dall’epica alla narrazione mitologica, dai Cuntisti siciliani ai Griot dell’Africa sub-sahariana, il racconto di sé e del proprio gruppo è una manifestazione naturale, transculturale e atemporale. La narrazione, secondo Paul Ricoeur (1983), è un fenomeno universale, poiché non esiste popolo senza racconto: di non narrativo c’è solo la natura senza l’uomo e, appena la natura viene parlata, abbiamo subito il racconto, il mito, la religione. Raccontiamo perché non possiamo farne a meno di raccontare, perché la mente è fatta di storie: il racconto è una rappresentazione che connette, crea nessi che illuminano e permettono di ristrutturare le conoscenze, collega, riordina, ricuce, dà senso.

Il raccontare-raccontarsi, risponde a bisogni generativi profondi, fonda mondi nuovi, crea memoria, immagini ed emozioni, apre possibilità; dialoga perché prevede sempre un interlocutore, è un atto creativo fondato su un’etica dello scambio e dell’ascolto, consente una condivisione affettiva, una negoziazione dei significati sociali che si incontrano, si confrontano, si compenetrano in un ininterrotto processo di interpretazione e rielaborazione dell’esperienza. Ridare spazio alle reciproche narrazioni ed educare all’ascolto delle narrazioni altrui appare per tali ragioni di vitale importanza per la crescita emotiva, cognitiva e sociale di una persona: la possibilità di tessere parole produce felicità, osserva la narratrice maghrebina Fatema Mernissi (1998, p. 46), e lo scrittore Antonio Tabucchi (1995, pp.6-7) scrive che la vita senza racconti diventerebbe una grande schizofrenia in cui esplodono come in fuoco d’artificio i mille pezzi delle nostre esistenze: per ordinare e capire chi siamo dobbiamo raccontarci.


Produrre felicità è un obiettivo un po’ presuntuoso ma, forse, ridefinire le ferite lo è meno. 

Il trauma abita la persona a tempo indeterminato. Arriva senza preavviso, modifica le strutture e, anche quando appare ridefinito, continua la metamorfosi interna giorno dopo giorno.
Raccontare il trauma in senso esistenziale e pedagogico è assumerne il lessico psicopatologico senza farne un assoluto; raccontare il trauma è raccontare la ricostruzione quotidiana dell’essere.
Quali parole? Quali pratiche ricostitutive? Ancor prima, quali pratiche narrative?


Un percorso educativo che aspiri a una ecologia profonda deve assumere su di sé la responsabilità etica di una scoperta preliminare: farsi carico della violenza insita nelle prassi riproduttive e istituzionalizzanti, aver coscienza dell’etnocentrismo e dell’ irriducibile involucro culturale.
Un esercizio del dubbio e della domanda continui, una meta-riflessione  costante e l’ assunto di base di essere arcipelaghi, non monadi, di essere mangrovie non radici …

Testo: Lavinia Bianchi

Foto: Marcello Scopelliti – Banda del Minestrone, un ensemble che scambia canzoni e poesie in cambio di verdure da trasformare poi in minestrone consumato collettivamente in strada dagli abitanti del quartiere di TorPignattara, Roma. Iniziativa a cura dell’Associazione “Alice nel Paese della Marranella”.

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