Io abito davanti al carcere.
Dalle finestre di casa mia ne vedo un piccolissimo frammento di mura, ma appena esco in strada la sua presenza domina tutto l’orizzonte. Posizionato a ridosso del centro cittadino, la sua esistenza si manifesta come un non sequitur rispetto alle case che lo circondano: un blocco di cemento armato, circondato da un’inferriata a sbarre violata solo dai tanti gatti del quartiere, che entrano ed escono a loro piacimento dal cortile interno. Tutt’intorno, il carcere si estende in una teoria di sensi unici e parcheggi riservati al personale penitenziario che rende tortuoso il traffico e proietta la presenza dell’edificio ben oltre l’inferriata a sbarre, invadendo con la sua presenza anche le vite di chi ci vive intorno. Come la mia, ad esempio: ogni volta che metto il naso fuori di casa mi ritrovo a pensare all’assurdità di un luogo di reclusione, la cui principale funzione è l’isolamento, nel bel mezzo di una città di 120mila abitanti. In un certo senso, la tortura perfetta.
Non ci sono mai entrato, ma parlando con persone che ne sono state ospiti so che da quelle finestre si vedono gli attici di alcuni palazzi, dove in estate le persone amano spendere lunghe serate al fresco mangiando, bevendo e scherzando in compagnia.
In particolare, io abito davanti all’ingresso principale, affacciato proprio su quella striscia di marciapiede che è frequentato principalmente da tre categorie di viventi: i gatti di cui sopra, le guardie carcerarie con i loro parcheggi riservati, e i parenti in visita ai detenuti.
Da sempre, lo spettacolo di persone in attesa accalcate su quel marciapiede accompagna le mie uscite mattutine: in larghissima maggioranza donne, spesso accompagnate da bambini e comunque sempre cariche di buste piene di vestiti. A volte, noto che le stesse persone rimangono a lungo in attesa per entrare, un’attesa che in tempi di coronavirus si è ulteriormente dilatata.
Il marciapiede davanti al carcere non è dotato di nessuna struttura, per cui d’estate si sta sotto il sole e d’inverno sotto la pioggia. Ogni volta che ci passo, mi domando che colpa abbiano quelle persone, i parenti dei detenuti, e mi è chiaro che rendere quel marciapiede un non-luogo (pieno solo di parcheggi riservati e deiezioni canine) serve a rendere quelle esistenze in attesa delle non-persone.
A volte, nel cortile interno del mio palazzo, vedo dei bambini che vengono a cercare angoli riparati per fare i propri bisogni. A volte non sono bambini, ma adulti piegati da necessità fisiologiche umanissime a cui nessuno sembra aver pensato, nella costruzione di quel carcere e neanche in anni successivi.
Mi rendo conto di vivere su un confine, tra la reclusione e il mondo dei liberi, e se da una parte questo costante promemoria mi ricorda i meccanismi base del nostro agire sociale (sorvegliare e punire) dall’altra non riesco a non pensare alla posizione in cui in questa dinamica s’inseriscono i parenti dei detenuti, costretti a pagare per crimini che non hanno commesso attraverso quella forma di umiliazione che è l’attesa davanti al carcere, sotto il sole e senza uno straccio di buco per fare i bisogni.
E d’improvviso mi è chiaro come un luogo, formalmente deputato a svolgere funzioni di giustizia, possa produrre forme d’ingiustizia così manifeste verso gli anelli più fragili di questa società.
Che guarda caso, ancora una volta, sono donne e bambini.
Carlo Miccio
Foto: Marcello Scopelliti