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  • Categoria dell'articolo:L'astrolabio

Il razzismo negli Stati Uniti d’America ha radici ben piantate nella sua storia. L’esperienza della schiavitù ha condizionato 250 dei 300 anni della sua vita (la legge sui diritti civili è solo del 1964) sottomettendo i neri con tutta la forza che può produrre lo Stato.  Una segregazione così sistematica e con radici così profonde da plasmare la struttura portante dell’economia statunitense con la feroce avidità di Wall Street, facendo da fondamento per una crescita economica che nella storia del mondo non ha precedenti.  La stessa cultura basata sulla estrema competitività in grado di accettare un alto livello di tolleranza per le disuguaglianze deriva dal peccato originale della schiavitù.  Una società che vive gli estremi paradossi poggiati sul pauperistico concetto di merito che accetta per questo livelli di diseguaglianza e di povertà inammissibili in altre parti del mondo sviluppato. La schiavitù e lo sterminio delle tribù indigene hanno fatto da substrato alla quantità abnorme di violenza e di discriminazione che le tante battaglie delle organizzazioni per il rispetto dei diritti civili e una doppia, inutile, presidenza di un afroamericano non sono riusciti nemmeno a scalfire. 

La schiavitù negli Stati Uniti fu abolita nel 1865 e per farlo ci fu bisogno di quattro anni di guerra civile tra Il Nord abolizionista ed il Sud schiavista. Città distrutte e vittime innocenti fu il prezzo che si pagò per giocare la partita sulla falsa idealità dell’uguaglianza tra gli uomini (ben altri interessi economici spingevano le due parti alla battaglia come sempre in tutte le guerre). Ma non bastarono altri cento anni per dire che un nero era uguale a un bianco perché nonostante la Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti affermi che «tutti gli uomini sono stati creati uguali», i Padri fondatori, mentre scrivevano queste nobili parole, pensavano a uomini con la pelle di un colore solo. La condizione degli schiavi in America era tale da non essere nemmeno definiti esseri umani. A loro tutto si poteva fare, ogni sorta di angheria e violenza, erano privati di tutto, della libertà, della dignità, nulla poteva appartenere loro nemmeno i figli.

Le proteste di questi giorni sono l’ultimo momento di ribellione della società civile afroamericana che si va ad aggiungere ad una lunga serie di rivolte seguite ad atti di violenza delle forze dell’ordine e di organizzazioni razziste. L’evento più significativo ed eclatante fu l’assassinio di Martin Luther King il 4 aprile 1968 a Memphis ma prima c’erano stati i moti di Watts 1965 con 34 morti, Newark 1967 (26 morti), Detroit 1967 (43 morti) ed altri ancora. Da allora qualcosa è cambiato ma rimane una intollerabile disparità tra bianchi ed afroamericani sul piano sociale ed economico. Molti studi dimostrano che il divario tra bianchi e neri è più ampio adesso che negli anni ’60 e ’70. I dati sulla repressione degli afroamericani la si trova anche analizzando il sistema penitenziario. Le persone detenute negli USA sono attualmente 2,3 milioni, sparsi tra oltre 7mila carceri statali, federali e locali. Si tratta di un tasso di 698 detenuti su 100mila abitanti e già questo è un dato interessante essendo uno dei più alti tra i Paesi avanzati. Gli afroamericani pur essendo il 13% della popolazione rappresentano circa il 40% dei detenuti.

Il suprematismo bianco è enormemente cresciuto con la presidenza Trump o, come sarebbe più corretto dire, ha avuto da questo presidente la spinta ad uscire allo scoperto. Ma anche dopo l’elezione di Obama si videro crescere episodi razzisti in quanto la sua elezione fu vista da questi gruppi come un affronto. Un nero non sarebbe mai dovuto arrivare alla Casa Bianca. I suprematisti bianchi hanno come obiettivo quello di provocare una guerra razziale. Sono tanti i video che testimoniano, anche in questi giorni, come siano elementi bianchi che durante le proteste si danno ad atti vandalici, in alcuni casi si è trattato addirittura di elementi delle forze dell’ordine in borghese.  

La situazione attuale ci conduce a due domande. La prima è la classica cui prodest? a chi giova tutto questo. In un primo momento Trump si è servito delle proteste, specialmente quelle sfociate in scontri e saccheggi, per spostare l’attenzione dell’opinione pubblica americana ed internazionale dalla disastrosa gestione dell’emergenza Covid-19 con tanto di “legge e ordine” e bibbia in mano. Adesso però la dimensione della protesta sta arrivando a livelli tali da non garantirgli più la possibilità di una gestione pro domo sua. Anche perchè rischia di saldarsi al malcontento proprio per la crisi economica prodotta dalla pandemia.

La seconda domanda ci interroga sul dopo, come se ne esce? Per avere uno sbocco positivo un movimento di questo genere deve avere un interlocutore istituzionale all’altezza della situazione. E in questo momento, essendo alle porte l’elezione per la presidenza i due possibili interlocutori possono essere o il presidente attuale o lo sfidante in caso di vittoria. Entrambi i personaggi, per motivi diversi, non sembrano all’altezza della sfida che questo movimento pone. Per ora il solo atto concreto del movimento è stato l’aver tradotto in manifesto politico lo slogan “Defund the police” che chiede di tagliare i fondi ai dipartimenti di polizia ed investire quei soldi in programmi sociali a favore delle minoranze. L’unico risultato di questa iniziativa è tato quello di dividere il fronte democratico che aveva con grandi difficoltà buttato giù il rospo di un candidato mediocre. Biden si è subito dichiarato contrario mentre l’ala più estrema del partito lo ha appoggiato. Alexandra Ocasio-Cortez presenterà una serie di proposte che dovrebbero rappresentare una mediazione, staremo a vedere.  L’appuntamento con la storia, d’altronde, l’ha plasticamente mancato Barack Obama che non è riuscito ad incidere in nessun modo nella vita degli afroamericani e, prima ancora, la mancata elezione di Al Gore. Candidato alla presidenza nelle elezioni presidenziali del 2000, nonostante avesse la maggioranza dei voti, a causa del sistema elettorale negli Stati Uniti fu battuto da George W. Bush, in maggioranza per numero di grandi elettori. Vista la caratura del personaggio molti analisti sono convinti che sarebbe stato un grande presidente. Avrebbe gestito lui la crisi post 11 settembre con una buona possibilità che non avrebbe iniziato la sciagurata avventura afgana, avrebbe avuto una visione ecologista e sicuramente avrebbe fatto per l’equità e la giustizia verso tutti e particolarmente verso gli afroamericani più di quello che hanno fatto i suoi predecessori e chi lo ha seguito bianchi o abbronzati (Cavaliere dixit) che fossero.

Joe Biden non ha lo spessore dello statista, da li non ci si potrebbe attendere granchè ammesso che fosse eletto. Leaders all’altezza di Martin Luther King e Malcom X o anche di Eldridge Cleaver o Hosea Williams o donne come Annie Bell Robinson Devine non se ne vedono, chi guiderà le migliaia di persone che hanno invaso le strade di decine di città verso la conquista di risultati concreti? E’ l’enigma del momento e non è una domanda da poco perché se un movimento di queste dimensioni non raggiunge un obiettivo politico sarà solo l’ennesimo fallimento della parte liberal della società americana.

Roberto Pergameno

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