Benjamin Netanyahu, riconfermato al governo israeliano insieme con il suo oppositore Benny Gantz, è pronto a dare seguito al suo proposito di annessione di molte colonie israeliane nei territori occupati, considerate illegali dal diritto internazionale. Il suo alleato di governo Benny Gantz in campagna elettorale si era opposto a questa decisione ma ora, pur di far parte di un governo di coalizione, appoggia la decisione di Netanyahu che ha, peraltro, il sostegno anche dal presidente Usa Donald Trump. Questa decisione compromette definitivamente la possibile soluzione “due popoli, due Stati” come stabilito dagli accordi di Oslo e il processo di pace nella regione. Con buona pace delle Nazioni Unite e della risoluzione 242 votata il 22 novembre 1967 dal Consiglio di sicurezza dell’ONU al termine della cosiddetta “guerra dei sei giorni” in ottemperanza del VI capitolo della Carta delle Nazioni Unite, relativo alla risoluzione pacifica di dispute. Secondo i più autorevoli osservatori Israele, al fine di arrivare all’annessione dei territori occupati, cambierà radicalmente il suo assetto politico/istituzionale. Saranno messi sotto pressione tutti i soggetti che nel Paese rappresentano il corpo intermedio dello Stato considerato l’unica democrazia del Medio Oriente. Il sistema giudiziario e i media in prima istanza così come le organizzazioni che difendono i diritti umani e i diritti degli arabi. Si prevede una stretta sulla libertà di stampa che potrebbe arrivare a censurare per legge articoli o editoriali se critichino l’esercito israeliano o sostengano il boicottaggio di Israele. Sono persino a rischio gli ingressi nel Paese a chi critica il regime israeliano (cosa già successa peraltro a tre deputate USA su suggerimento/richiesta del loro stesso Presidente, sic). Le organizzazioni della società civile che attualmente godono di una relativa libertà di manovra potrebbero essere private del loro status giuridico. Più che una previsione è ormai una certezza che i rappresentanti degli gli arabi con passaporto israeliano verranno emarginati ancor più pesantemente. La riforma più eclatante dal punto di vista giuridico sarebbe la realizzazione di uno Stato ebraico in cui tutti i legislatori sarebbero ebrei. Israele diventerebbe di fatto uno stato confessionale al pari del tanto odiato IRAN degli ayatollah.
La maggior parte dell’opinione pubblica israeliana sembra non rendersi conto delle implicazioni pratiche dell’annessione unilaterale sulla propria vita quotidiana, non sembra cioè essere a conoscenza delle minacce insite in tale decisione, inclusa la destabilizzazione dell’aerea e l’escalation quasi certa nelle ostilità israelo-palestinesi. Con questi eventi sarà palese al mondo intero quale siano le vere mire dello stato sionista. Sarà chiaro a tutti, per la prima volta in maniera esplicita ed inequivocabile, che l’occupazione della Cisgiordania, che va avanti dal 1967, è destinata a continuare e che non è, al contrario di quanto sempre sostenuto, un fenomeno passeggero. Quella che è stata sempre ritenuta una pedina di scambio in vista delle trattative per la costituzione di uno Stato Palestinese diventerà ciò che i 700.000 coloni sparsi in centinaia di insediamenti in territorio palestinese dimostrano, una invasione in vista dell’annessione dell’intera regione.
Qualche voce critica anche in Israele si alza a contrastare questa follia. Questo è quello che dice uno dei più autorevoli giornalisti israeliani, Gideon Levy. “In questo momento abbiamo a che fare con 700.000 coloni ebrei. È irrealistico pensare che qualcuno evacui 700.000 coloni. Senza la loro completa evacuazione, non c’è possibilità di avere uno stato palestinese. Tutti lo sanno e tutti continuano con le solite litanie perché conviene a tutti dire: ‘due Stati, due Stati’ conviene all’Autorità Palestinese, all’Unione Europea, agli Stati Uniti, e in questo modo puoi continuare l’occupazione per altri cento anni, pensando che un giorno ci sarà una soluzione a due Stati. Non succederà mai più. Abbiamo perso quel treno e quel treno non tornerà mai più alla stazione”.
Altra voce critica è quella del rabbino Dovid Weiss, portavoce di Neturei Karta International il quale afferma che gli ebrei anti-sionisti sostengono il ritorno di tutte le terre occupate al popolo palestinese. Il rabbino Weiss ha affermato che il regime israeliano è stato istituito in Palestina commettendo tutti i tipi di crimini contro il suo popolo. Ciò rappresenta una violazione delle leggi religiose ebraiche nei confronti di altri esseri umani, aggiungendo che gli ebrei anti-sionisti sostengono “il ritorno di tutta la terra al popolo palestinese”. “Come ebrei tradizionalmente ortodossi. Ci opponiamo al sionismo perché è una filosofia antiebraica di costruire una patria sovrana per gli ebrei durante l’esilio divinamente decretato, che è proibito dalla religione ebraica. Inoltre, questa patria è stata fondata in Palestina commettendo tutti i tipi di crimini contro il suo popolo, il che è una violazione delle leggi religiose ebraiche nei confronti di altri esseri umani. Non sosteniamo “due stati per due popoli”; sosteniamo il ritorno dell’intera terra al popolo palestinese. Crediamo che ebrei pacifici non militanti saranno in grado di vivere in pace in uno Stato palestinese.”
Le conseguenze di tutta questa situazione sulla vita dei palestinesi sono evidenti. Israele impone limitazioni alla libertà di movimento dei palestinesi residenti nella Cisgiordania occupata: posti di blocco, interruzione vie di comunicazione, strade per soli coloni, ostacoli causati dal muro o da barriere di sicurezza. Israele impone inoltre gravi restrizioni all’ingresso dei palestinesi a Gerusalemme Est, annessa illegalmente. Le limitazioni alla libertà di movimento nella Cisgiordania occupata sono imposte principalmente per proteggere gli insediamenti e i loro abitanti, per migliorare i collegamenti tra gli insediamenti e Israele e per creare spazio destinato a future costruzioni ed espansioni. In sintesi, Israele limita la libertà di movimento di 2.900.000 palestinesi in favore di 700.000 coloni la cui presenza è, ai sensi del diritto internazionale, illegale. Queste restrizioni arbitrarie e discriminatorie costituiscono una forma di punizione collettiva e pregiudicano gravemente la possibilità dei palestinesi di lavorare, avere accesso a cure mediche, studiare e visitare i familiari
Il conflitto arabo-israeliano, che dal 1948 ha trasformato la terra di Palestina in un campo di battaglia permanente, è un prodotto tragico del nazionalismo, inserito in un contesto di forte conflittualità religiosa. La costituzione dello stato di Israele avvenne al termine di una contraddittoria politica di decolonizzazione attuata con gravissime responsabilità da Francia e Gran Bretagna. Fino al 1914 la Palestina era parte dell’impero Ottomano. Una regione scarsamente popolata che nel 1880 contava circa 24 mila ebrei e 150 mila arabi. Nel 1945 gli arabi erano saliti a 1 milione e 240 mila, mentre gli ebrei erano 553 mila. Durante la prima guerra mondiale, in funzione anti ottomana, fu promessa l’indipendenza ai grandi proprietari arabi in cambio del loro appoggio. Con la sconfitta dell’Impero Ottomano l’area mediorientale passò sotto il protettorato franco-inglese. Il Premier britannico Balfour, rispondendo alla pressione del movimento sionista, dichiarò di vedere con favore la creazione di uno stato ebraico indipendente in Palestina (1917). In effetti questo fa parte dell’accordo Sykes-Picot, siglato nel marzo 1915, e tenuto a lungo segreto, che fissò la spartizione dell’intero Medio Oriente in aree di influenza.
Nel maggio 1947 la Gran Bretagna annunciò all’ONU che si sarebbe ritirata dalla regione. L’assemblea delle Nazioni Unite propose di dividere la regione in due aree. Agli ebrei sarebbe andata la zona del Negev. Usa, Urss e Francia si dichiararono a favore; la Gran Bretagna si astenne; stati arabi, India, Grecia e Pakistan votarono contro. Questo fu il primo grande errore degli arabi. Se si proponesse adesso ai palestinesi lo stesso accordo ci sarebbero festeggiamenti per giorni in tutte le città dei territori palestinesi. Quando le truppe inglesi lasciarono il Medio Oriente, nel maggio 1948, fu immediatamente proclamato lo Stato di Israele. E questo, per contro, fu il grande errore della comunità internazionale ancora alle prese con i sensi di colpa per il recente Olocausto.
Gli stati arabi considerarono la creazione dello stato ebraico, fondato su basi religiose e razziali, un atto di forza intollerabile. Un esercito formato da palestinesi e truppe dei paesi arabi circostanti attaccò il nuovo stato iniziando la lunga stagione delle sconfitte militari. Aggressioni dei paesi arabi e controffensive violentissime portarono i soldati di Israele ad occupare vaste zone interamente abitate dai palestinesi. I conflitti del 1956, 1967 e 1973 aprirono le porte alla tragedia dei “territori occupati”. Le alture del Golan, la striscia di Gaza e la Cisgiordania diventarono campi di guerriglia permanente con una popolazione a grandissima maggioranza palestinese (1,5 milioni gli arabi inglobati nei confini israeliani) discriminati e disprezzati da autorità e coloni. Soltanto nella controffensiva del 1949 e in seguito ai disordini dovuti alla proclamazione del nuovo stato ci furono quasi 1 milione di palestinesi espulsi dalla propria terra, accolti in miserabili campi profughi messi a disposizione dai paesi arabi e dall’UNRRA.
Il conflitto arabo israeliano ha assunto connotati sempre più drammatici. Nel 1956 i palestinesi costituiscono un movimento di liberazione (Al-Fatah) capace di collaborare con le forze armate degli stati arabi e di muovere azioni di guerriglia nel territorio israeliano. Nel 1967 Nasser annunciò il blocco delle navi che attraversavano il golfo di Aqaba per rifornire Israele. Lo stato ebraico rispose con la forza. Il 5 giugno 1967 l’aviazione bombardò gli aeroporti dei paesi arabi, le truppe di terra occuparono Gaza, Sherm el Sheikh, la Cisgiordania e Gerusalemme, le alture del Golan, l’Alta Galilea e il Sinai. L’attacco passò alla storia come la guerra dei 6 giorni. Il 10 giugno le offensive erano già terminate.
Le ferite aperte da questo conflitto risultarono gravissime. Lo scontro all’interno del territorio palestinese si trasformò in guerriglia permanente. Il movimento politico arabo si radicalizzò e si militarizzò facendo sempre più ricorso alla rappresaglia e alla violenza. Nel 1969 nasce l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) sotto la guida di Yasser Arafat. Intanto anche il Libano, con il bombardamento di Beirut nel 1968 ad opera dell’aviazione israeliana, entrava nella spirale di guerra del Medio Oriente
Il 1972 è l’anno del massacro di Monaco. Il 5 settembre un commando di guerriglieri palestinesi fa irruzione negli alloggi israeliani del villaggio olimpico, prendendo in ostaggio nove atleti ed uccidendone due.
Anwar Sadat, successore di Nasser alla presidenza dell’Egitto, il 6 ottobre 1973, sfruttando l’effetto sorpresa offerto dalla festività dello Yom Kippur, attacca Israele insieme alla Siria. Questo tentativo di cambiare i rapporti di forza nell’area fu disastroso. L’armata araba fu costretta alla ritirata, fino alla periferia de Il Cairo. Il 22 ottobre la controffensiva ebbe termine. L’Egitto finirà per riconoscere Israele e firmare un trattato di pace a Washington nel 1979. Sadat pagò con la vita questa decisione. Tacciato di tradimento della causa araba, fu assassinato nell’autunno 1981. Il resto è storia recente, con le varie Intifada, la progressiva istituzionalizzazione dell’OLP e gli accordi della prima metà degli anni ’90 (1994, autonomia a Gaza e Gerico). L’assassinio di Rabin però cambiò nuovamente tutto portando al governo Ariel Sharon e con lui la ripresa delle ostilità con i palestinesi.
E’ del tutto evidente che la questione palestinese sia la madre di tutti i problemi nel mondo arabo e tra questi paesi e la comunità internazionale. Se qualche Premio Nobel per evitare i massacri a cui stiamo assistendo si sarebbe dovuto impegnare per risolvere questa situazione che è un evidente alibi per tutti gli estremisti votati alla jihad. Nessuna soluzione ai problemi in Medio Oriente ci potrà mai essere fino a quando non verrà riconosciuto al popolo palestinese il diritto all’autodenterminazione e alla costituzione di un proprio Stato indipendente. Per questo servirebbe una presidenza USA lungimirante, un governo Israeliano consapevole del bene del proprio popolo e non ricattato dall’ala più sionista (peraltro minoritaria) della sua popolazione ed una comunità internazionale (Comunità europea in testa) che avesse il coraggio, per la prima volta dal 1947, di assumersi le proprie responsabilità. Nulla di tutto ciò si intravede, purtroppo, all’orizzonte.
Roberto Pergameno