di Brigida Angeloni – I parte
Agosto 2012
Dopo circa una settimana di permanenza in Burkina Faso avevo affrontato l’acqua fredda per lavarmi a Ouagadougou, le latrine in cortile e il materasso di foglie di mais a Bobo, ero pronta quindi per la vita in un villaggio africano, o almeno questo era quello che pensavo.
A Bobo il trattore era stato revisionato da un giovane meccanico locale che, dopo aver lavorato ininterrottamente per due giorni e aver ricevuto la sua paga, mi ha confessato che non aveva mai operato su un motore di un trattore e che mi era molto grato per l’esperienza. Fossimo stati in Italia lo avrei bruciato vivo, ma dopo qualche giorno di vita africana, avevo capito che dovevo essere più accomodante o sarei stata costretta a praticare un genocidio.
Dopo l’arrivo del trattorista, che avrebbe guidato il mezzo per oltre 70 km in direzione del villaggio, ho preparato lo zaino stipandolo al massimo, perché sapevo che l’ultimo tratto del percorso era caratterizzato da qualche chilometro in motorino e dovevo viaggiare leggera.
Piena di entusiasmo, ma anche con un po’ di timore, mi metto sul pullman diretto a Orodara, mi godo il panorama che viaggiando da est verso ovest in Burkina diventa sempre più verde, avvicinandosi al confine ivoriano.
Scendo dal pullman e trovo pronto il mio accompagnatore, coltivatore di Moussodougou, guida spirituale dei musulmani del villaggio, inutile dire che si chiama Mamadou, terribile notare che sullo schermo del telefonino troneggia la foto di Osama Bin Laden.
Mi accoglie con la consueta simpatia dei burkinabè, mi mostra la cassa di acqua minerale che mi servirà per bere al villaggio e mi dice di montare sul motorino e di tenermi stretta a lui.
Piove, in maniera costante da alcune ore, la terra rossa è ormai fango scivoloso, lasciamo il goudron asfaltato ed entriamo nella foresta.
Il percorso prevede stradine sterrate e scorciatoie tra i campi di mais e i bananeti. Piove. Mi guardo intorno e penso che se Mamadou si ferma, estrae un coltello e mi fa a pezzetti, non lo saprà mai nessuno. A fatica estraggo il telefono dal kway e mi accorgo che incredibilmente c’è campo. Mi concentro su questo elemento positivo, fino a quando non realizzo che se uno ti sta uccidendo sotto un albero di mango, non è che chiami a casa e qualcuno arriva a salvarti in tempo.
Decido che se tanto devo morire, non ci posso fare nulla, rifletto sul fatto che sono una pazza scatenata che fa cose irresponsabili e per sicurezza dico un paio di preghiere per salvare la mia anima.
Durante tutte queste elucubrazioni mentali meritevoli del premio Dario Argento 2012, Mamadou guida lentamente il motorino cinese, che ha appunto ammortizzatori cinesi, mi ricorda di stringermi a lui se no gli volo via (ma come? ma ti pare che una si mette a stringersi al suo assassino?), mi dice di avere pazienza perché il viaggio è faticoso, mi chiede se voglio fermarmi sotto un albero per aspettare che spiova al coperto. Beh, mica sono scema, si tira dritto fino al villaggio, niente fermate! In realtà Mamadou non ha nessuna intenzione di farmi a pezzetti, non sa veramente cosa stia combinando Osama Bin Laden, perché non ha la televisione e neanche la radio, ma questo lo scoprirò soltanto dopo.
Il mio povero accompagnatore mi dice quali sono le piante che mi circondano, mi mostra le arance che da mature hanno la buccia verde e quando gli dico che le nostre sono proprio arancioni, si mette a ridere come se gli stessi raccontando una balla.
A un certo punto, dopo qualche chilometro di foresta meravigliosamente verde, comincio a vedere le casette circolari di terra rossa e Mamadou mi annuncia che stiamo arrivando al villaggio e che Moussodougou vuol dire villaggio delle donne. La cosa mi piace e comincio ad avere la quasi certezza che non morirò quel giorno…

Arriviamo a casa di Mamadou, durante il viaggio mi ha spiegato che ha appena finito di costruire la sua nuova casa in mattoni di cemento perché quella di terra gli si era sciolta addosso nella precedente stagione umida. Finalmente smette di piovere.
Ci fermiamo e mentre scendo dal motorino con il coccige frantumato, accorrono un imprecisato numero di ragazzini che mi sottraggono lo zaino e lo portano in casa. Io me lo sarei tenuto volentieri vicino, ma non ho tempo di reagire perché Mamadou mi presenta le sue due mogli, una mi porge un bicchiere di latte (presumibilmente di capra) e a quel punto so che devo dire di no, ma lo devo fare con garbo e me ne esco con una frase: “no grazie, il latte non mi piace”, perché mi pare brutto dire che se lo bevo mi viene una dissenteria che mi porta dritta al creatore senza che il marito debba commettere un omicidio. La signora mi guarda perplessa, si gira e chiama i bambini più piccoli che si scolano il latte litigandosi il bicchiere.
A questo punto sono circa le sei del pomeriggio, io vorrei guardarmi un po’ intorno, ma la seconda moglie mi dice che mi devo lavare e insiste. Mi viene il dubbio di emanare cattivo odore data la solerzia con cui mi accompagna verso la latrina, dove mi lascia un secchio di acqua fantasticamente tiepida. Obbediente mi lavo, mi asciugo e mi vesto e mi rendo conto che in un attimo si è fatto buio. Concludo soddisfatta che allora non puzzavo, ma dovevo muovermi perché qui non c’è la corrente elettrica e soprattutto colgo le mie lacune geografiche nonché astronomiche, perché in questo punto del pianeta viene buio tutto d’un colpo, ma a Bobo lo avevo notato meno perché lì la corrente elettrica c’è.
Mi fanno sedere su una sedia fatta con le canne legate, che per terra sarei stata meglio, ma non discuto perché non si sa mai. Quando finalmente ho trovato una posizione decente, mi chiama la seconda moglie che sta cucinando in una stanzetta affumicata, alla luce di una torcia. Mi chiedo perché poveraccia faccia tutto lei, mi arrovello a pensare che forse in quanto seconda moglie debba lavorare di più, ma in realtà non so nulla di vero sulla poligamia, se non fantasie da occidentale, che piano piano spariranno quando comincerò a conoscere un po’ meglio il Burkina Faso e le sue strutture sociali. Ma è presto, le mie fantasie e le mie presunzioni di conoscenza sono tutte lì, nel mio schema interpretativo occidental cristiano, e seppur vacillanti, resisteranno nella mia mente ancora per un po’. Ma torniamo a lei, la seconda moglie: si chiama Ba, la prima non lo so, mi è stata subito antipatica perché invece di chiamarmi per nome mi chiama Madame, che mi dà la sensazione che le sto sulle scatole.
Ba sta facendo una frittata di cipolle, acqua e farina di un cereale che si chiama Poid de Terre, che in Italia non esiste. Mi spiega tutta la ricetta, che il segreto per addensarla è un pizzico di polvere di radice di Baobab, e mi raccomanda, quando al mio ritorno sentirò la forte esigenza di prepararla, di non cuocerla sulla legna bagnata, se no mi prende di fumo.
Ecco, qui mi chiedo se magari le devo dire che a casa mia l’unica legna che è entrata è quella dei mobili, che il gas metano è una gran figata perché giri una manopolina e ti si accende il fornello. No, non glielo posso dire. Lei è bella, simpatica, sorride sempre, non le posso dare questo dolore. Mi mostro interessata alla faccenda della polvere di baobab, mentre mi affumico come un carbonaio e la guardo mentre si fa luce tenendo in bocca una torcetta.
Finalmente mangiamo la frittata che non sa assolutamente di nulla, ma la famiglia la accoglie come noi le lasagne a Natale, mentre io comincio a sentire la stanchezza e chiedo di andare a dormire.
Di fronte la casetta principale c’è un’altra piccola costruzione. Entriamo muniti di torce, una stanzetta vuota con una finestrella e una stuoia sul pavimento, un cesto con delle arance, le bottiglie di acqua minerale e il mio zaino. La temperatura si è abbassata molto, tiro fuori dallo zaino il lenzuolo che volevo mettere sulla stuoia, ma mi ci copro perché fa troppo freddo per fare l’igienista. Mi stendo e mi chiedo come facciano questi poveretti a dormire così tutta la vita e alla fine mi addormento, sono circa le 20,30.

Mi sveglio al suono di una voce, realizzo dove sono, cerco di alzarmi ma mi fa male tutto, pure i capelli. Resto stesa e cerco di capire cosa succede, fuori è buio perché dalle lamelle della finestra non entra la luce. Comincio a capire: il figlio tredicenne di Mohamed, il più grande dei maschi, chiama il villaggio alla preghiera, è la sua voce che mi ha svegliato. Guardo l’orologio, sono le 4,30 del mattino. A fatica mi tiro su e vado a sbirciare fuori. Tutta la famiglia è uscita in cortile, anche il bimbo più piccolo che ha 5 anni, stanno velocemente stendendo i tappeti a terra e iniziano a pregare. Siamo in periodo di Ramadan, dopo la preghiera potranno bere e mangiare prima che arrivi l’alba, per osservare il digiuno fino al tramonto.
Io mi rimetto sulla stuoia, mangio una delle deliziose arance che mi hanno lasciato e aspetto, mi riaddormento un po’ fino a che le voci dei bambini e qualche spiraglio di luce non fanno breccia nella stanzetta. Mi alzo, mi sento le ossa una ad una, ma ho un sacco di cose da fare e devo muovermi. Appena esco dalla porta tutti si attivano per farmi sedere, mi portano l’acqua calda dove metto il Nescafé che avevo nello zaino, mangio un’altra arancia e un po’ di fette di mango disidratato messo lì a posta per me. Loro non mangiano e non bevono per rispettare il Ramadan, quindi mi lasciano sola presi dalle loro attività. In realtà i bambini più grandi sono già nei campi a zappare, tranne uno che è rimasto per tirare il collo a un polletto e spennarlo, me lo mostra dicendo che quello è il mio pranzo.
Arriva Mamadou dopo aver lasciato i figli a lavoro, allegro come se si fosse appena alzato da un materasso memory foam, mi porta in giro per i campi e mi mostra le coltivazioni. Mi spiega come gli alberi di mango proteggono le piante che hanno bisogno di penombra e come organizzano la semina delle differenti colture. Mi racconta che alternano la coltivazione delle patate dolci alle patate tradizionali per averne tutto l’anno. Mi fa vedere un gruppo di ragazzi che sradicano un appezzamento di banani e mi spiega che la banana dopo tre anni va spostata perché consuma tutte le sostanze della terra, che quando abbattono i banani prima levano la parte verde per riutilizzare le foglie, poi i tronconi vengono eradicati con attenzione perché andranno ripiantati altrove, infine che dalle radici che vengono danneggiate estraggono il potassio e lo vendono o lo usano direttamente loro per cucinare i fagioli rendendoli morbidi. Vediamo le piante di papaya, quelle di arachide, il mais e queste piantine del famoso Poid de terre della frittata della sera prima.
Diciamo pure che non capisco un tubo di agronomia e che potrebbe serenamente raccontarmela come vuole e io produrrei la stessa espressione idiota che farei difronte a un esperimento di chimica o a una lezione di astronomia. Quindi, siccome in fondo vivo ancora con sottile disagio la presenza della foto di Osama Bin Laden sul telefonino del mio accompagnatore, anche se cerco di fare la disinvolta, non mi permetterei mai e poi mai di contraddire Mamadou. Camminiamo, ogni tanto qualche contadino si unisce a noi. Le donne mi sorridono e salutano con la mano. I bambini vengono colti dall’euforia perché c’è una toubabu. A questo punto ho la certezza che non mi uccideranno e comincio a pensare che questo posto è un paradiso.

Arriviamo di fronte a una costruzione abbastanza grande, è la prefettura di Moussodougou. Qui c’è il pozzo con l’acqua filtrata, qui si arriva dopo km di cammino a prendere l’acqua potabile. Ogni famiglia ha il suo pozzo, ma ormai tutti sanno che il colera si prende dall’acqua non filtrata e per bere vengono a prenderla di fronte la prefettura.
Su un lato della costruzione c’è il dispensario e uno studio medico dove al momento sta ricevendo un medico che mi sembra di capire stia li apposta per visitare dei neonati. Fuori dalla porta una trentina di donne con i piccoli in braccio, che aspettano pazienti sedute a terra il proprio turno chiacchierando a voce alta.
Una donna, forse un’ostetrica o un infermiera, controlla i libretti sanitari e organizza l’ordine delle visite, le mamme mi guardano incuriosite, qualcuna ride, forse sono troppo bianca oppure sono vestita da bianca scema, a scelta …
Brigida Angeloni si occupa da diversi anni di educazione degli adulti e di ricerca nell’ambito pedagogico. Negli ultimi anni sta svolgendo studi e ricerche sulla valorizzazione delle competenze dei migranti e sui saperi comunitari delle comunità della Diaspora. Dal 2012 si reca regolarmente in Burkina Faso, dove sostiene micro progetti di sviluppo destinati all’occupazione femminile e all’accesso all’educazione delle bambine e dei bambini a rischio di forte esclusione sociale.