Una questione oziosa: la sensibilità dei macellai

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Un paio di mesi fa, nel delirio di notizie che accompagnano l’evoluzione del conflitto in Ucraina, è comparsa la segnalazione della protesta di alcuni macellai italiani che si dichiaravano stanchi di essere accomunati a Putin e ai suoi sgherri. “Veniamo costantemente associati a Putin e alle sue barbarie e questo ci offende profondamente” ha affermato un rappresentante di categoria a nome di moltissimi dei suoi colleghi.

La notizia non mi avrebbe forse colpito così tanto se quello stesso giorno non avessi trascorso parte della giornata ad aiutare dei bambini di quinta elementare a comprendere il funzionamento del linguaggio figurato. A distinguere cioè il valore semantico tra le due frasi “Mario è un bambino” e “Mario è una volpe”, aiutando così a sviluppare la funzione del pensiero astratto che tanta differenza fa tra la specie umana e quella dei primati.

Consapevole che non tutti possano vantare il privilegio di lavorare con giovani menti in formazione, l’impressione che ne ho nondimeno derivata è che i macellai – adulti – con la loro rimostranza stessero abbassando l’asticella della complessità linguistica che quei bambini dimostravano di riuscire a padroneggiare in maniera eccellente. E siccome il linguaggio è la prima fondamentale forma di collante sociale, in un certo senso quei macellai stavano abbassando l’asticella della complessità linguistica e cognitiva dell’intera società, prefigurando un mondo incapace di coglier le sfumature di significato e un gran numero di figure retoriche (dalla metafora alla metonimia) che la civiltà umana ha elaborato nel corso degli ultimi 5mila anni di storia. Un uso del linguaggio monodimensionale, dove il significato di qualunque termine sembra stabilito a priori e non determinato dal contesto, e dove – sull’onda di una sensibilità social che vive l’accumulo di significati solo sull’immediato presente – l’uso di categorie del pensiero astratto, figurato o comunque non immediatamente tangibile, sia troppo ambiguo per essere decifrato dall’utente massa, consumatore di notizie che devono essere comprese e giudicate in tempo reale senza lasciare spazio né tempo per elaborazioni mentali che vadano oltre prospettive esclusivamente soggettive e l’impatto puramente emotivo che esse possono avere.

Insomma, la lezione dei macellai sembra essere frutto di una generale disposizione sociale che, a mio personale avviso, renderebbe ancora più urgente recuperare la complessità di un linguaggio che non si fermi al primo livello di significato – così come avremmo bisogno di persone che non si fermino al primo risultato di Google quando cercano di approfondire fatti e notizie.

Tendenzialmente quindi, tenderei a considerare assurda la polemica, e di conseguenza ignorarla, se non fosse per un dettaglio significativo. I macellai non dicono che sia ingiusto, sbagliato o impreciso l’accostamento della loro professione con Putin: dicono di esserne profondamente offesi. E davanti a una persona che si sente offesa – recita un mantra molto contemporaneo – c’è poco da stare a ragionare: la scelta se continuare a offendere o meno – al di là di qualunque sia la validità dell’obiezione – è responsabilità esclusiva di chi quella metafora utilizza.

Come scrive Daniele Giglioli nel suo Critica della vittima (citato da Elisa Cuter in questo prezioso libro) “Essere vittime dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore d’identità, diritto, autostima. Immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio.”

D’altronde, cosa ne posso sapere io di come si può sentire un onesto professionista scoprendo che su Google alla stringa “Putin + macellaio” corrispondono 79,800 risultati? Tutto quello che posso fare è manifestare empatia verso lo sconforto provato dalla categoria. Tanto più che essi stessi propongono di sostituire l’analogia usando il termine “boia”, con cui comunque gli stessi macellai vengono da anni già appellati da schiere di animalisti vegani e anti-specisti, in un crescendo di reciproche accuse e giudizi di natura etica. Perché, a dirla tutta, anche quello del boia è un mestiere ingrato che forse non merita di essere ulteriormente messo alla berlina: in effetti si tratta di persone che si caricano di una responsabilità collettiva in quegli stati dove la pena di morte è considerata un’esigenza di ordine pubblico.

Per cui l’intera discussione rimane ancorata al momento dell’offesa e l’unica alternativa sembra quella di rinunciare a una complessità capace di rendere il linguaggio efficace, come ci ricorda la sopra citata Elisa Cuter: “Così più che partire dal sé desiderante, che si costruisce sulla base di dove vuole andare, ci troviamo costantemente a partire dal sé traumatizzato, che pretende di essere risarcito, accudito e si aspetta qualcosa come un bambino a cui è stato fatto un torto.”

E una società che riporta tutto al soggetto, alla sua esperienza personale è una società che rinuncia a una gestione collettiva della crisi e dei cambiamenti: consapevole dell’oziosa immaterialità di questo ragionamento, solidarizzo con i poveri macellai offesi ma allo stesso tempo mi domando come fare per non appiattire la mia visione del mondo sulla versione della vittima. Che non si tratterebbe di empatia, in quel caso, ma di auto-depotenziamento. Qualcosa di cui potremmo anche fare a meno, per quanto mi riguarda.

Testo: Carlo Miccio
Foto: Marcello Scopelliti

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