Sempre più frequentemente si fa riferimento alla necessità di maggiore meritocrazia. E’ singolare il fatto che il termine “meritocrazy” fu utilizzato per la prima volta dal sociologo britannico Michael Young (“The Rise of the Meritocracy” 1958) dando però alla definizione una accezione negativa. L’autore voleva indicare, con esso, una forma di governo distopica, una sorta di oligarchia del quoziente intellettivo e dell’attitudine al lavoro. Negli anni settanta in Italia il metodo meritocratico fu introdotto nelle valutazioni scolastiche ignorando il fatto che un tale criterio di giudizio non tiene in considerazione la eventuale provenienza dello studente da contesti sociali e familiari disagiati e, pertanto, di fatto discriminando tali soggetti. E’ dato da pensare che la meritocrazia sia funzionale alla concezione liberale della società che tende a giustificare in questo modo le differenze sociali. Questo metodo di valutazione è, inoltre, funzionale alla logica mercantile della scuola soggetta alle richieste del mondo del lavoro che non disdegna la formazione di classi ben determinate che vadano a coprire l’intero fabbisogno della produzione, dal dirigente all’operaio, dal ricercatore al semplice tecnico. Non è un caso che settori sempre più ampi della società e, conseguentemente, sempre più organizzazioni politiche hanno finito, ultimamente, per vedere la povertà come un difetto, un disvalore nella scala del merito. Invece di combattere la povertà la società moderna tende a combattere i poveri, considerandoli responsabili della propria condizione. Una qualsiasi comunità e più di tutte una società moderna dovrebbe considerare, invece, prioritaria la necessità di garantire a tutti diritti e non privilegi.
Sulla necessità della crescita culturale ed umana, sul bisogno che società complesse abbiano necessità di garantirsi classi dirigenti sempre più preparate ad affrontare le sfide che si presentano non v’è dubbio. Il punto di equilibrio da raggiungere, però, sta tra il diritto al superamento di tutti gli impedimenti alla crescita culturale e la necessità di selezione del personale dirigente sia nella gestione della cosa pubblica che nei rapporti lavorativi privati. Un sistema che prenda in considerazione soltanto il merito di taluni e non si faccia carico del superamento delle difficoltà degli altri è un sistema sbilanciato che crea disparità, blocca l’ascensore sociale (ormai fermo da anni specialmente in Italia) e produce malcontento.
Nel definire il concetto di merito, quantomeno nella sua accezione teorica, non si può eludere la considerazione morale che esso implica. Per dare valore assoluto al merito dovremmo elevare la pratica del perseguimento della ricchezza personale a valore etico positivo. Coloro i quali si siano distinti nella capacità di accumulare ricchezza possono attribuirsene il merito nella logica meritocratica solo e soltanto nell’ambito che potremmo definire tecnologico-finanziario mentre una società evoluta dovrebbe basarsi su meriti che attengono all’agire morale volto, pertanto, la bene comune.
Seguendo questo ragionamento non si può non arrivare ad uno dei capisaldi dell’opera di Karl Marx, la definizione del valore sociale e del merito secondo alla quale una società giusta dovrebbe attenersi: “Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni”. In questo modo a ogni individuo verrebbe riconosciuto il suo contributo al progresso della società in base alle proprie capacità individuali e ognuno avrebbe indietro ciò che gli necessita in base alle proprie peculiari condizioni soggettive e/o familiari.
Roberto Pergameno
Foto: Marcello Scopelliti