La lingua degli altri

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Nel corso della storia, il colonialismo degli stati europei ha soggiogato e marginalizzato i popoli indigeni anche attraverso misure legali che hanno portato alla loro esclusione e alla privazione dei loro diritti. Uno dei mezzi maggiormente utilizzati in questi processi è stata l’imposizione della lingua dei conquistatori con l’eliminazione degli idiomi autoctoni dalla vita pubblica.

Le popolazioni indigene dei Paesi colonizzati hanno visto ignorata, denigrata e persino soppressa la loro lingua e, conseguentemente, la loro cultura. Il risultato di tali pratiche perdura ancora oggi e ne sono la prova i bassi tassi di mantenimento dell’insegnamento della propria lingua di origine ai bambini indigeni, così come il diffuso e continuo divieto delle autorità in molti stati di utilizzare lingue autoctone nei contatti e nelle interazioni sociali. Ciò comporta la perdita di valore della cultura indigena fino al totale annientamento delle radici stesse del popolo. Le colonne portanti della colonizzazione, nonché i tratti comuni di un processo altrimenti molto segmentato, sono proprio l’annientamento culturale, l’evangelizzazione, l’imposizione di una ideologia schiavista e la conseguente accumulazione di ricchezza.

La mancanza di riconoscimento culturale e umano è alla base della concezione che i conquistatori europei avevano, per esempio, dell’indigeno americano. Nel vecchio continente l’idea che si aveva degli indigeni era fondamentalmente quella di esseri inferiori, subumani che andavano al più tutelati in quanto incapaci di autogovernarsi e di arrivare autonomamente a un grado di civiltà superiore, più spesso schiavizzati senza ulteriori giustificazioni. Queste visioni furono alla base della legittimazione della conquista.

Alla fine degli anni Venti del secolo scorso, il britannico Charles Kay Ogden elaborò il “basic english”, una riduzione dell’inglese concepita come una sorta di lingua artificiale basata su un numero abbastanza limitato di vocaboli (850) e su una semplificazione della grammatica. “Basic” stava per “British American Scientific International Commercial”, e il suo scopo dichiarato era quello di farla diventare la lingua internazionale di scambio da impiegare, per l’appunto, in contesti scientifici o commerciali.

Winston Churchill, in un dialogo con Franklin Delano Roosevet presso l’Università di Harvard il 6 settembre 1943 affermò: “Il potere di dominare la lingua di un popolo offre guadagni di gran lunga superiori che non il togliergli province e territori o schiacciarlo con lo sfruttamento. Gli imperi del futuro sono quelli della mente.”

Nei suoi studi il professore tunisino Claude Hagège (“Morte e rinascita delle lingue. Diversità linguistica come patrimonio dell’umanità”, Feltrinelli, Milano 2002) individua nella lingua inglese la principale minaccia che “svolge un ruolo di primo piano tra i fattori della morte delle altre lingue”. Un problema evidenziato anche da uno dei più grandi intellettuali africani, Ngugi wa Thiong’o, pluricandidato al premio Nobel che per ora non gli è mai stato assegnato, autore di “Decolonizzare la mente” (Jaca Book, 2015), che, in una intervista su la Repubblica del 2 agosto 2019, invitava gli scrittori proprio a ribellarsi all’uso della lingua inglese.

In Africa il francese è strettamente legato alla politica coloniale dell’Hexagone. L’imposizione della lingua metropolitana è la conseguenza naturale della potenza economica e militare dei colonizzatori. È dunque in una situazione di costrizione che il francese s’impone con un decreto del Ministro dell’Istruzione Pubblica negli anni trenta del secolo scorso a scapito delle lingue e delle culture locali, che vengono così proibite nella formazione dei giovani africani e nell’amministrazione coloniale essendo considerate come folklore, forme di oscurantismo e fermenti di disintegrazione della Repubblica.

In assoluta controtendenza rispetto a quanto fin qui affermato vi è l’esperienza del Paraguay dove la lingua locale, il guaranì, è parlata da oltre il 70% della popolazione. Dei quattro idiomi parlati tra Paraguay e parte della Bolivia e del Brasile (quechua, aimara, maya e guaranì) soltanto quest’ultima è riuscita ad imporsi come lingua ufficiale. E’ stato un gesto di resistenza che queste popolazioni hanno opposto, nel coro degli anni, ai conquistadores. Lo spagnolo rimane la lingua ufficiale del Paraguay ma molti documenti burocratici sono scritti in guaranì e la conoscenza di questa lingua è spesso indispensabile per ottenere lavoro. Durante la dittatura di Alfredo Stroeener in Paraguay dal 1954 al 1989 la lingua guaranì venne messa al bando. Nel 1992 il guaranì fu elevato a lingua ufficiale insieme allo spagnolo mentre una legge del 2012 impegna il governo paraguaiano a mettere le due lingue sullo stesso piano istituzionale. Alla base di questa evoluzione troviamo una forte motivazione identitaria perché come dice Alba Eiragi Duart, poetessa guaranì “La nostra cultura si trasmette attraverso la lingua che abbiamo sempre parlato. La cultura è lingua.”

E’ forse questo uno dei motivi del fallimento dell’Esperanto, la lingua inventata da Ludwik Zamenhof, medico ebreo polacco-lituano nel 1887 che avrebbe dovuto essere la lingua universale. il fallimento dell’Esperanto fu dovuto anche al fatto che è una lingua codice, senza una cultura, in altre parole senz’anima, sempre e solo lingua seconda, mai lingua di pancia. Ovviamente senza dimenticare l’ostracismo subito sia da Hitler che da Stalin che vedevano in questa lingua, ancorché artificiale, il tentativo di superamento del becero nazionalismo in auge nella prima metà del ‘900. 

Roberto Pergameno

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