Il lavoro che uccide

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Alzarsi alle quattro del mattino è un atto contro natura. Il buio avvolge tutto, dentro e fuori le case e induce al raccoglimento, al riposo. Le strade deserte, le poche luci sulle facciate dei palazzi di periferia tutti uguali. La tua unica prospettiva sono le lunghe ore di lavoro in fabbrica. Il lavoro, il lavorare in fabbrica poi, prende sempre una larga fetta della propria vita. Un obbligo, il contributo dovuto ma anche un atto imposto, un modo per assumersi le proprie responsabilità. Il lavoro prima è sognato e il lavoro nei sogni è sempre creativo, appagante, la realizzazione delle proprie aspirazioni. Ma il lavoro è anche ricerca di indipendenza, l’uscita da uno stato di necessità, dalla schiavitù dell’indigenza. E allora la ricerca del lavoro diventa spasmodica, affannosa. E i sogni si allontanano e finiscono spesso per scontrarsi con la realtà. Il lavoro nei sogni non è solo un mezzo per la soddisfazione dei propri bisogni, una condizione che metta la parola fine ai problemi economici, che tolga dubbi e incertezze ma rappresenta anche la realizzazione di se, sentirsi finalmente vitali. Si sogna il lavoro perchè nella condizione di disoccupati ci si sente frustrati e incapaci di affrontare le sfide della vita. E poi il lavoro, finalmente, arriva ed è un lavoro di merda. La fabbrica. Luogo di alienazione per antonomasia, luogo di fatica e di ripetitività straniante. E tu accetti perchè non hai altre prospettive o almeno è quello che ti dicono. E ti ritrovi alle quattro del mattino a prepararti il pranzo da portare sul luogo dove trascorrerai le prossime ore. Lasci la casa, un ambiente accogliente per immergerti nel caos organizzato della produzione industriale. Per Antonio è così da 15 lunghi anni. Oggi piove, è un’alba che non accenna a dare la sua luce. L’inverno comincia ad annunciarsi con i primi temporali, il primo freddo che ti prende di sorpresa. E’ già finita l’estate? Tina, sua moglie, inerme abbozzolata nelle lenzuola a protezione di quell’intimità di cui anche lui era parte fino a pochi minuti prima, di fianco al letto la culla di Michele, nato appena due mesi prima. Nell’altra stanza dormono le figlie più grandi, Giada è agitata forse alle prese con i primi incubi infantili, lei che ha da poco iniziato la prima elementare. La macchinetta del caffè spande il suo odore in cucina. 36 anni e già si sente vecchio. Si invecchia presto in fabbrica. Guarda la tazzina fumante e rivede tutte quelle che gli sono passate davanti nelle tante albe solitarie. Ci sono alcune scelte, nella vita, che ce le spieghiamo solo se stiamo andando a fondo. Sono quelle scelte apparentemente controintuitive. Quelle che, quando le raccontiamo, gli altri sgranano gli occhi e ti guardano con sorrisi di circostanza, pacche sulle spalle o considerazioni non richieste. Come spiegare, come spiegarsi, la decisione di lasciare l’amato paese del sud per trasferirsi, prima da solo poi con la famiglia, in questa brumosa campagna piemontese circondata dal nulla solo per associare la propria persona e con essa la vita propria e dei propri cari alla produzione di acciaio industriale? Il lavoro, ancora lui. Il peso della responsabilità, della famiglia, del futuro dei suoi figli. E quando si sente solo si aggrappa a Tina, la sua donna di sempre fin da quando era bambina. Ci si aggrappa fisicamente, in una infinita immobilità amorosa, appiccicati l’uno all’altra, membro per membro, come in certi supplizi nell’unica arte che conosce. E lei lo sa, si dona a lui con l’ardore delle prime volte sfumato, negli anni, in un affetto profondo che non gli fa mai mancare. Accogliente, consolatoria, rassicurante è li perché lui possa trovare, in lei, tutte le risposte alle domande che non ha mai avuto il coraggio di farsi. Fu così fin dal primo innamoramento. Quel lontano giorno di primavera quando vide Tina come fosse la prima volta, come non l’aveva mai vista prima. Cresciuti insieme nella tranquilla routine di paese improvvisamente si accorse che Tina era ormai una ragazza, non ancora una donna ma non più la bambina sua compagna di giochi innocenti. Cominciò a guardarla con occhi diversi, con il suo vestito a fiori dal quale uscivano due gambe per la prima volta attraenti, il seno formato come d’incanto, lo sguardo attento, le maniere accorte, educate. Fu sua da subito, prima ancora di quel primo bacio, prima ancora di consumare in un momento indimenticabile entrambe le loro verginità. Qualche anno dopo Tina rimase incinta di Giulia. Un matrimonio organizzato in fretta, prima che si vedesse la pancia, anche se tutti sapevano. Ma le apparenze in un paese del sud ancora contano ed entrambe le famiglie convennero che un tale imbarazzo se lo sarebbero volentieri evitato. Due anni dopo venne Giada e adesso, da soli due mesi, è arrivato anche il maschietto, Michele.

Poco dopo le cinque del mattino, sulla linea principale dell’acciaieria, il calore sta aumentando pericolosamente. Rocco e Angelo si guardano preoccupati. Rocco è il più anziano, il più esperto. Tra qualche mese andrà in pensione, finalmente potrà tornarsene al suo paese. Lo aspettano gli amici di sempre, i cugini, Vittore con il quale ha una barca in società per andare a pesca. Dice ad Angelo di allontanarsi, andrà lui a controllare il serbatoio dell’olio che alimenta la fornace. Angelo aspetta un po prima di girarsi verso gli altri operai del turno di notte. Che cazzo proprio adesso che c’è il cambio turno, che loro devono staccare e andarsene a casa. Vede Bruno Rosario e Giuseppe che avanzano e gli fa cenno di fermarsi, è inutile che vengano avanti, ci pensa Rocco.  Rosario si gira e torna verso l’uscita, li c’è Roberto che sta entrando per iniziare il suo turno. Vedono Rocco avvicinarsi alla fornace, sollevare il coperchio del pannello di controllo, allarga le braccia. Antonio entra proprio in quel momento in reparto con la sua borsa a tracolle, con il pranzo e il thermos con il caffè.

Nella tasca dei pantaloni, dentro il portafogli, ha una foto, un’immagine. Ricorda bene quel giorno quando, dopo averla lungamente cercata finalmente, la trovò. Era dentro un libro dal titolo emblematico “Giardino d’inverno”, la fotografia ritrae sua madre bambina. Quella foto lui se la ricordava, doveva pur essere da qualche parte. Le foto sono quel “reale che non si può più toccare” come diceva Barthes. In questa ossessiva ricerca della foto della madre si incarnano i simulacri delle sue donne, i suoi eidôlon ειδωλον come nella Grecia classica, i brandelli di corpo delle persone che furono. La mamma e la tanto amata nonna paterna. Un percorso interiore ed emotivo che cerca, attraverso la ricerca e la catalogazione delle immagini di famiglia di riproporre i sentimenti che lo hanno legato a loro. Un tentativo di resistere all’oblio e alla perdita di sé attraverso la forza cruda delle immagini. Il rapporto con loro si ritrova e si riperde in ogni scatto senza appagare il desiderio di raggiungere l’essenza ontologica della persona. E’ un incisivo e intenso tentativo di proteggere l’esistenza delle sue donne dalla caducità del tempo. Ma, come le farfalle di Hirst sono destinate a spegnersi trasformando l’eden nel più buio degli inferni, così le fotografie di sua madre e di sua nonna restano, stigmatizzate, semplicemente racconti di frammenti di vita nell’estremo tentativo di resistere all’oblio. Come fantasmi sono ricordi che, alla luce, si affievoliscono sino a sbiadire. Lui, così lontano dalla terra natia gioca con questo puzzle iconografico inserendo e togliendo le caselle a seconda dell’emozione del momento.

Nulla di tutto ciò, però, riempiva i pensieri di Antonio all’alba di quel giorno maledetto.

Antonio entra nel capannone della fonderia alle 5,18 esatte. Davanti a lui ci sono, di spalle, Rosario e Giuseppe. Angelo sta tornando indietro verso i due colleghi ai quali ha fatto cenno di fermarsi.  Poco più in la ci sono Roberto e Bruno, anche loro sono a fine turno, tra qualche minuto potranno tornare casa. Anche loro si fermano a guardare la fornace che emana vapore come un drago affannato. Rocco si avvicina alla fornace. Il tempo si ferma li. Un tempo infinito ed immobile, un istante lungo una vita. Non fa in tempo ad avvicinarsi al termostato per constatare quale fosse l’inconveniente. Un’esplosione, un lampo precedono di una frazione di secondo un’onda di fuoco che investe gli operai. E’ questione di poco, tutto è fiamme e distruzione. I sensori attivano le sirene, gli impianti si fermano, il flusso dell’olio viene chiuso da cavitoie automatiche ma è troppo tardi. E’ troppo tardi per Rocco che non andrà più al suo paese a godersi la pensione. E’ tropo tardi per Angelo che non vedrà più gli occhi tanto amati di Noemi, sua figlia. E’ troppo tardi per Rosario che non giocherà più a calcio nella squadra rionale. E’ troppo tardi per Roberto che ha lasciato la moglie e due figli. E’ troppo tardi per Bruno, il più giovane, quello sempre allegro che doveva andare a gestire un bar con la fidanzata Anna. E’ troppo tardi per Giuseppe che resisterà per 24 giorni assistito dai genitori e dalla sorella Laura perché aveva un fisico della madonna. Ed è troppo tardi per Antonio che non vedrà più la foto della madre da bambina, Tina sul balcone quando rientra a casa, la figlia tornare da scuola e il piccolo Michele che dei tre sarà l’unico che non si ricorderà di lui.

Dedicato ai sette operai morti nell’incidente alla ThyssenKrupp di Torino il 6 dicembre 2007.

Antonio Schiavone, 36 anni. È stato il primo a morire, lo stesso giorno dell’incidente, ed anche l’unico all’interno della fabbrica. Aveva una moglie, Immacolata, e tre figli all’epoca piccoli: due bimbe di 4 e 6 anni, Giada e Giulia, e un maschio, nato appena due mesi prima, Michele. Da tre anni viveva a Envie, in provincia di Cuneo. –

Roberto Scola, 32 anni. È morto, poco prima delle 7 del mattino, all’ospedale Cto. Aveva il 95% di ustioni su tutto il corpo. Era sposato con Egla, da cui aveva avuto due figli di un anno e mezzo, Gabriele, e tre anni, Samuele. Quando arrivò al Cto era cosciente e terrorizzato all’idea di non rivedere più i suoi bambini. –

Angelo Laurino, 43 anni. È morto nel pomeriggio, al San Giovanni Bosco. È stato stroncato da un’insufficienza multiorgano. Aveva ustioni di terzo grado sul 95% del corpo. Residente a Torino, aveva moglie, Sabina, e due figli, Fabrizio di 12 anni e Noemi di 14.

Bruno Santino, 26 anni. È deceduto in serata al Cto. Era stato trasferito in giornata dall’ospedale Maria Vittoria. Aveva un fratello, Luigi, pure lui operaio alla Thyssenkrupp, e si sarebbe dovuto licenziare per andare a gestire un bar con la fidanzata Anna, di 21 anni. Il padre Antonio è stato l’emblema del corteo dei sindacati per le vie di Torino. –

Rocco Marzo, 54 anni. Capoturno, sposato con Rosetta, padre di due figli, una di 26 anni (Marina) e uno di 22 (Alessandro), è morto all’ospedale Molinette. Aveva ustioni profonde sul 60% del corpo. A fine mese sarebbe andato in pensione.

Rosario Rodinò, 26 anni. È morto alle 8.45 presso il reparto grandi ustionati dell’ospedale Villa Scassi di Genova. Era stato trasferito da Torino all’ospedale genovese in elicottero nel primo pomeriggio del 6 dicembre col 90% del corpo coperto da ustioni soprattutto di terzo grado.

Giuseppe Demasi, 26 anni. È morto alle 13.40 nell’ospedale Cto. Aveva ustioni sul 95% del corpo. Era stato sottoposto a quattro interventi ma le sue condizioni erano peggiorate a livello polmonare e il cuore non ha retto. È sempre stato assistito dai genitori, Rosina e Calogero, e dalla sorella, Laura.

Questa storia è raccontata in forma di racconto pertanto alcuni elementi della narrazione sono il frutto della fantasia dell’autore.

Roberto Pergameno

Foto: Marcello Scopelliti

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