E se il Molise fosse in Sierra Leone?

Nel corso di una recente zoommata tra amici, nel classico seppur recentissimo stile conviviale informatico diventato familiare ai più (sicuramente al sottoscritto) durante l’isolamento anti-pandemico, è uscita fuori un’interessante chiacchierata sugli effetti del Coronavirus visti da una prospettiva africana, o quantomeno più afro-centrica di quelle a cui siamo solitamente abituati. Alcuni dei partecipanti erano africani (Ba dal Mali e Inse dal Senegal, entrambi residenti da tempo in Italia), altri avevano esperienze di lavoro in Africa con la cooperazione internazionale, come Roberto e Giampiero, e altri ancora – come me e Lavinia- vengono da lunghe esperienze nel settore dell’accoglienza e dell’Africa hanno una conoscenza nata dalla frequentazione e amicizia con persone provenienti da quel continente – frequentazioni che spaziano dall’intepretariato in sede di commissione alle chiacchiere amichevoli e confidenziali davanti a un caffè.

La cosa che ha attirato subito la nostra curiosità è stato il basso impatto, comparato alle cifre dei paesi più industrializzati del mondo, che finora la pandemia ha avuto nel continente africano. Già questo è di per sé un ribaltamento della narrazione a cui siamo solitamente abituati, e la prova più evidente sono le telefonate ansiose che i nostri amici africani ricevono dai loro familiari, preoccupati dalle notizie che attraverso i media arrivano dall’Italia. Per una volta, l’Africa appare come un luogo più sicuro dell’occidente, e questo costringe tutti a rivedere un rapporto che convenzionalmente s’instrada sempre su dei binari rigidissimi (i bisognosi sono loro, gli erogatori di aiuti siamo noi) e che personalmente trovo molto asfittico, perché ignora l’essenza degli individui e le loro storie personali da entrambe le sponde dell’incontro.

Inevitabilmente però, la discussione si è avviata sulle possibili cause di questa differenza, e si è parlato dell’età media molto più giovane della popolazione africana come anche del caldo che sembrerebbe nuocere il virus. Ma, in primo luogo, è emerso chiaramente che le modalità della pandemia sono tipiche dei paesi ricchi, dove le persone possono muoversi rapidamente grazie a passaporti che (ce) lo permettono (un passaporto italiano consente l’ingresso in 152 paesi, quello nigeriano in 48, quello somalo in 39, fonte https://www.passportindex.org/ ).

I loro viaggi – fatti di attraversamento del deserto, soggiorno nei lager libici e attraversata del Mediterraneo con tempi medi variabili dai sei mesi ai tre anni – mal si addicono alla diffusione rapida di un virus che invece, con il giusto passaporto, può viaggiare da Wuhan a Lodi, Siviglia e Vancouver nel giro di una notte.

Ma a questo – faceva notare Roberto, volontario di Emergency che segue da anni i vari progetti della ONG – va aggiunto qualcosa che gioca un ruolo tutt’altro che secondario: esperienze pandemiche precedenti, come l’Ebola, hanno già insegnato efficaci regole sanitarie a cui noi (europei) non siamo abituati. In Africa le epidemie non sono insospettabili imprevisti (o peggio ancora congiure di governi cinici e ladri in combutta con le multinazionali farmaceutiche) ma realtà quotidiane con cui le persone hanno imparato a convivere e a gestire attivamente da tempo. Come la regola della sospensione dei funerali, aboliti in periodo pandemico per primi in Sierra Leone quando, più di dieci anni fa, fu chiaro che erano il veicolo più forte di focolai – sia per la prolungata esposizione del cadavere in attesa dei parenti ma anche e soprattutto per la diffusione su lunghe distanze del virus da parte degli stessi parenti, che una volta tornati a casa riportavano con sé le inevitabili infezioni.

Dentro di me, istantaneo il paragone con il Molise, che solo il giorno prima grazie a un funerale era diventata zona rossa dopo due mesi di contagi zero. E poi ancora alla mia amica Isabelle, che ha vissuto in Libano ai tempi della Mers e sa starnutire nel gomito con una naturalezza che a molti di noi ancora non riesce, e che invece in lei è ormai consolidata dall’abitudine.

Mi rendo conto che ci sarebbe a questo punto l’occasione per [il solito] pippone sull’occidente viziato e mollaccione incapace di relazionarsi con gli eventi della natura, ma anche questo sarebbe etnocentrismo venato da sensi di colpa che non servirebbe a niente.
Quello che servirebbe, invece, sarebbe ancora una volta prendere le occasioni al volo: se il virus è circolare, la conoscenza senza pregiudizi di esperienze altre dovrebbe diventare altrettanto circolare, e insegnarci ad affrontare come una vera collettività allargata quella che è una sfida che ci riguarda tutti, come pianeta intero. E magari scopriremmo che in Molise si può imparare qualcosa dall’esperienza della Sierra Leone. E forse anche in Lombardia, rinunciando alla retorica onanista dei Primi della Classe. Retorica che, a onor del vero, non è un problema solo lombardo ma di tutti quelli che non riconoscono il valore dell’ascolto nei confronti di ogni essere umano come qualcosa di fondamentale, qualcosa che non riguarda solo i diritti dell’altro ma anche la nostra stessa capacità di essere persone migliori. In questo caso, almeno più sane.

Carlo Miccio

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